Non lo ucciderete neanche morto

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Non sono più sicuro che mi piaccia Succession. Probabilmente capita a tutti di seguire una serie per inerzia, però questo mi sembra un caso più complicato. All'inizio c'erano gli intrighi di tre fratelli e altri parenti/cortigiani per succedere al padre; l'elemento di novità è che a turno tutti i protagonisti si rivelavano dei deficienti. Ogni volta che uno dei tre sembrava finalmente fare la mossa giusta, riscattarsi, diventare adulto, magari pure uccidendo il padre – niente da fare, subito dopo inciampava nei lacci di scarpe. È un meccanismo che distingue Succession da tanta altra fiction, dove bene o male un eroe c'è: avrà dei difetti e potrebbero anche essere terribili, e forse nemmeno si emenderà, ma a un certo punto la storia viene a coincidere con un suo percorso verso il riscatto, la maturità. Succession non esclude mai che questo prima o poi succeda – il caso più eclatante mi sembra il finale della seconda stagione, quando Kendall fa una mossa veramente arrischiata che ci lascia sospettare che possa essere il Successore, per un attimo, anzi per un anno: dopodiché quando riparte ci accorgiamo in pochi minuti che è il solito pirla, niente da fare.

Esiste sempre un punto in cui ogni fiction avrebbe dovuto fermarsi per non ripetersi, e probabilmente anche in Succession questo punto è stato superato: il meccanismo continua a ripetersi, episodio dopo episodio, in modo sempre più automatico: pensiamo che Kendall/Roman/Shiv finalmente abbia in pugno la situazione, ma nella puntata seguente, a volte ormai nella scena seguente, ha in mano un pugno di mosche: la situazione era più complessa, la situazione continua a complicarsi e quei tre a girare a vuoto. Succession si ripete come tutte le fiction, ma somiglia meno a una fiction e più alla vita, dove malgrado tutti i momenti topici in cui pensi di aver finalmente capito e di essere cambiato, ti svegli il giorno dopo e sei esattamente il pirla di prima, in affanno dietro a un progetto che cambia tutti i giorni, una volta si trattava di ereditare, poi di vendere, poi di comprare, anzi di vendere per comprare un'altra cosa che alla fine è la stessa cosa, ma forse è meglio non vendere e non comprare, e intanto il tempo passa, i vecchi muoiono o si ammucchiano sullo sfondo ma continuano a guardarti scuotendo la testa, you're not serious people. I love you, but you're not serious people.

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La macarena sulle vostre tombe

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Vi vedo tutti immotivatamente entusiasti per un monologhetto sull'entusiasmo immotivato, un pezzo appiccicato alla benemeglio in un prodotto seriale per far contenta la guest star che se l'è scritto. Non c'entra niente con lo sviluppo della trama, è uno sbrego diegetico, è un attore che esce dal personaggio e ci intrattiene sui fatti suoi che secondo lui sono divertenti. Anche secondo voi sono divertenti – del resto sembra fatto apposta per essere trasformato in story e girare sui vostri smartofoni. È una variazione sul  tema delle chat scolastiche, nel 2023, ci vuole coraggio, no? Non sono mica tutti pronti all'ironia contro un avversario potente come le chat scolastiche. È un pezzo che si crede Mattia Torre, come probabilmente capita a tanti cartocci nel cestino della writing room della Littizzetto. È un pezzo che se la prende con l'entusiasmo dei genitori che vogliono fare qualcosa per migliorare l'offerta educativa del loro istituto. Hanno tutti una passione (la batteria, la danza, il ciclismo) e vogliono comunicarla, con tanto entusiasmo, che secondo il regista (appollaiato su una terrazza che dà su Piazza del Popolo) è "il sentimento più orrendo dell'essere umano". Non l'odio, non l'intolleranza, non l'impulso dell'audista che ti sorpassa a destra sull'A1: no, per il regista italiano il sentimento più orrendo è la voglia di insegnare qualcosa ai propri piccoli, e già che ci siamo ai piccoli degli altri. Capace che poi crescono più socievoli, ciò è sbagliato! Il regista italiano nel 2023 vuole stare in un angolo imbronciato, perché in questo consiste la sua coolness, in sostanza il regista italiano è una Mercoledì cinquantenne che si crede Nanni Moretti, e voi siete entusiasti di questa cosa. 

I genitori,per una volta che invece di lamentarsi dei compiti, dell'insegnante, del bullo o dell'insegnante bullo, provano a proporre cose, magari con un po' di ingenuità ma un minimo di buona volontà; i genitori che vedono i figli passare i pomeriggi senza staccare l'occhio dallo smartofono e la cosa li spaventa; i genitori si domandano se non c'è qualcosa di non scrollabile che potrebbe coinvolgere questi benedetti ragazzi; e invece di scrivere accorati appelli a Gramellini fanno un'assemblea con tante proposte, ognuno porta la sua cosa, a me sembra quasi commovente – ma al regista no. 

I genitori sono anche preoccupati per il traffico, in una città così complicata come Roma il ciclismo è ancora una scelta difficile (gli audisti ti menano se provi a usare le ciclabili) ma presto o tardi ineludibile, bisogna preparare i ragazzi a un mondo che sarà per forza diverso dal nostro, ma il regista dal terrazzo su Piazza del Popolo tutto questo traffico mica lo vede, e poi lui al pomeriggio giocava per i fatti suoi ed è cresciuto bene, i suoi figli idem, e questo chiude la questione: tutto è già come dev'essere, anche questi smartofoni prima o poi passeranno. Di questo, siete entusiasti.

Se i vostri figli lo sapessero vi soffocherebbero nel sonno – ah, ma lo sanno, vi leggono sullo smartofono. La macarena verranno a ballare: sulle vostre tombe.

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Il mio Cyrano

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Vorrei poter ricordare un suo grande film, ma non ce ne sono ed è una cosa che non sono mai riuscito a spiegarmi, un mistero la cui soluzione è magari banalissima ma fuori dalla mia portata. Così per quanto imbarazzante devo ammettere che per me Gigi Proietti è stato per prima cosa il presentatore di Fantastico 4, varietà autunnale di Enzo Trapani su Rai1, abbinato nel 1983 alla Lotteria Italia. Questa cosa non la ricorderanno in molti, del resto non fu nemmeno un successo; anzi un discreto disastro visto che la per la prima volta Rai1 perse la sfida del sabato sera contro il varietà più convenzionale di Canale 5, Premiatissima. Io avevo dieci anni e sentivo che qualcosa stava succedendo; notavo che uno dopo l'altro i miei compagni smettevano di seguire il Primo Canale e passavano a quell'Entità che stavo già cominciando a considerare il Nemico, se non altro perché insisteva a interrompere i cartoni con la pubblicità. Io invece imperterrito il sabato sera guardavo Fantastico e non mi costava nessuna fatica stare fuori dal gregge, perché a me piaceva Proietti. Piazzato lì tra un giochino e un balletto, veniva visibilmente da un altro mondo e ne era ben fiero, e io con lui. Ogni tanto riciclava un suo sketch, roba vecchia ma non per me, per me il mondo era appena iniziato. 

Da cui l'angosciosa domanda: ai decenni di oggi, può capitare la stessa fortuna? Ammesso che ci sia in giro gente brava quanto Proietti – ovviamente nei loro campi, che sono diversi da quelli che erano importanti quando ero bambino io, per cui non pretendo di capire se in giro c'è qualcuno altrettanto bravo a fare la sua cosa quanto Proietti era bravo a fare la sua. Spero proprio che ci sia, ma anche in questo caso: come fa un bambino di dieci anni a trovarlo, sul digitale terrestre o su youtube o tictoc od ovunque sia? A me Proietti arrivò per un capriccio dei palinsesti, l'effetto collaterale di un esperimento sbagliato; da lì in poi la Rai capì che non era la direzione giusta, chiamò Baudo a blindare il varietà nazionalpopolare e gli anni '80 proseguirono nel modo in cui preferiscono tutti ricordarli. Nel frattempo però io avevo visto Proietti: e avevo scoperto che mi piaceva di più. 

Appena tornò in tv, mi ci appiccicai: e questo fu il regalo più bello che mi fece Proietti, e in generale uno dei migliori che mi fece la tv, perché ci tornò con il Cyrano de Bergerac; non una versione televisiva, ma proprio il testo di Edmond Rostand, recitato con gli allievi del suo laboratorio. Un'altra cosa che non fu un successo: per quanto ho potuto appurare, di solito i ciraniani italiani si dividono in quelli che si ricordano Modugno e quelli che si ricordano Depardieu; per me invece Cyrano è Proietti, e Proietti è Cyrano. E Cyrano ovviamente è lo spirito guida di ogni preadolescente che l'abbia visto al momento giusto: a me è successo, grazie a Proietti. Probabilmente se lo rivedessi ora troverei i suoi allievi ancora un po' legnosi (come è giusto che fosse), e lui fin troppo debordante (come Cyrano d'altronde dev'essere). Ma sulle teche Rai non c'è, maledizione. 

Da cui il ritorno dell'angoscioso interrogativo: come faranno i ragazzini di oggi a capire quanto è bello il Cyrano di Bergerac e quanto sia necessario punzecchiare i De Guiche, sostenere i Cristiani e rinunciare alle Rossane? Magari non lo impareranno mai, magari non era affatto importante. Ogni generazione ha i suoi miti e i suoi sistemi di valori; è solo la ristrettezza del nostro punto di vista a suggerirci che il nostri fossero migliori. Proietti è stato un regalo per me, tra il 1983 e il 1986; in seguito l'ho perso un po' di vista, ma non riesco a credere che chi sia cresciuto col Maresciallo Rocca in tv abbia avuto lo stesso regalo che ho avuto io; quanto a quelli che da vent'anni in tv si trovano davanti il Grande Fratello e Ballando con le Stelle, beh capisco che preferiscano altri media, altri contenuti, e spero davvero che li trovino e che siano importanti e formativi come furono i miei. Devo sforzarmi di pensare che potrebbero esserlo; non devo essere schiavo del mio ristretto e fugace punto di vista, non devo trasformarmi in un querulo laudator temporis acti che Proietti irriderebbe in uno sketch. 

Ma non credo di riuscirci. Per quanto mi sentirete affermare il contrario, tenetevelo per detto: dentro di me una voce proclama che io ho avuto la migliore formazione possibile: ho avuto Rodari e Calvino e poi Eco; e in tv pure al sabato sera poteva persino capitare un Proietti. Ho visto un Cyrano integrale a dodici anni, certo non per merito mio: posso solo ringraziare. Grazie. 

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Pietà per noi 40

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Pietà per noi quarantenni, che siamo a fine corsa e non l'abbiamo capito.


Non siamo progettati per capire. Siccome nessuno ci prendeva sul serio abbiamo dovuto cominciare a farlo da soli, tirandoci su dalle sabbie mobili dell'ironia come il barone di Munchausen, con risultati discutibili. Anche adesso non capisci se ci siamo o ci facciamo. Wall Street può crollare, ma non toccateci la passeggiata. Un lockdown è Stato totalitario, una vecchia dal balcone che urla "State a casa" è il panopticon. Se solo Anna Frank potesse leggere i nostri diari on line, che pianti si farebbe, che empatia.

Pietà per noi quarantenni, che non siamo mai stati maggioranza e questo a un certo punto dev'essere diventato un limite cognitivo. Ancora oggi la domanda è: ma se vado al parco da solo, che problema c'è? E se tutti si facessero la stessa domanda, lo capisci che in quel parco saremmo in cinquecento, e un problema forse ci sarebbe? Ma il quarantenne non ragiona così, non si è mai visto massa e adesso è complicato cominciare. Moltiplicare tutti i suoi tic, le sue idiosincrasie, per un milione, dieci milioni, sessanta milioni. Come si fa.

Pietà di noi quarantenni che passiamo la giornata a domandarci di chi è la colpa, a inveire contro il governo e/o contro l'opposizione, contro i cinesi e contro gli inglesi, contro chi corre e contro chi non chiude le fabbriche. L'apocalisse ce la immaginavamo meglio comunicata, meglio descritta; è chiaro che mancano le competenze e manca la visione d'insieme.

Pietà per noi cresciuti alla scuola del cinismo. È inutile che ci racconti che ora tutto cambierà, fosse anche vero è troppo tardi. Se siamo quarantenni ne avevamo venti quando due grattacieli crollarono, sì, è facile dirlo adesso, che in fin dei conti cosa vuoi che fossero due grattacieli. Dovevi esserci quel giorno, e avere vent'anni: dovevi sentirti ripetere che nulla sarebbe mai stato come prima, e poi scoprire – indovina! Che tutto restava abbastanza come prima; magari qualche guerra in più, qualche attentato in più, ma neanche tanti. Adesso che ti aspetti, è il Duemilaeventi e se abbiamo quarant'anni è quel tipo di cifra che da bambini si metteva nel titolo di un film di fantascienza.

Hai un bel da dire che questo virus sarà complicato e poi ce ne saranno altri, e dalle crisi seguiranno crisi, e l'emergenza climatica e tutto il resto. Non è che non ce l'aspettassimo, ma è tardi. Non è che non immaginassimo di dover cambiare il nostro stile di vita, ma un po' prima, non a mutuo sulla casa quasi estinto. Non è che non ci aspettassimo l'arrivo dei Tartari, ma erano schedulati verso il Duemila, al massimo Duemilaecinque: adesso abbiamo famiglia, come si fa.

Pietà di noi che non abbiamo mai avuto una battaglia vera, un nemico chiaro da combattere: stavamo qui, cercavamo di mantenere un minimo di decenza, di difendere un minimo di cose che a un certo punto erano pericolosamente simili a uno status quo che nemmeno ci favoriva, ma insomma, in linea di massima uno deve fare quel che può nel luogo dove gli è capitato di vivere, e così abbiamo fatto: e ovviamente non bastava, e questo ci sarà contato: pietà di noi.

Pietà per noi che stavolta la sfangheremo, e magari non impazziremo – finché gli uffici e le scuole non riapriranno (e alcuni erediteranno cose che non vogliono e non sanno gestire): e allora sì, ci ritroveremo soli in cabina di comando e la prossima sirena adesso lo sappiamo, che suonerà per noi.
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Pietà di Morgan (sonata patetica)

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Morgan ha più o meno la mia età, quindi non c'è mai stato un periodo della mia vita adulta in cui non ne abbia sentito parlare – il più delle volte perché, mi dicevano, si stava autodistruggendo. E vabbe' agli artisti capita, però, davvero: Jim Morrison nel '66 era uno sconosciuto, nel '67 incise Light My Fire, alla fine del '71 era morto. Janis Joplin, John Belushi, Amy Winehouse, ci siamo capiti. Morgan ha iniziato ad autodistruggersi mentre io ero matricola all'università e ora ho i capelli bianchi e non pubblico articoli accademici da boh, un decennio? Non voglio dire che ci seppellirà – immagino sia il compito che spetta a Vasco Rossi – però credo abbia perso meno capelli di me, preso meno chili, insomma la sua strategia di autodistruzione lascia molto a desiderare e produce risultati quasi indistinguibili dal logorio dell'esistenza di un cristiano standard con un lavoro i figli il mutuo. Del resto cosa c'è di più mortale della vita. Vivre, c'est très dangereux pour la santé, diceva un tale.
Fammi entrare per favore
Nel tuo giro giusto
Ho bisogno di socializzare
Di uscire dal mio guscio
Morgan a Sanremo ha fatto il Morgan. È stato incontrollabile, è stato insopportabile, bullistico, eccetera. Nessun dubbio, e però persino Sanremo conosce traiettorie di autodistruzione molto più nette e verticali, vedi Tenco. Morgan poi è esattamente la persona da cui ti puoi aspettare quel che è successo, e chi lo ha scritturato soprattutto non ha margini per stupirsi, né per lagnarsi. Bugo senza Morgan non sarebbe stato selezionato, e senza un Morgan così assolutamente Morgan sarebbe facilmente scomparso verso lo sfondo del festival, dove vanno a languire gli zarrilli. Bugo ha un disco in uscita e ora una ventina di milioni di italiani sanno chi è. Morgan non incide più niente da anni e forse per un po' è meglio che non si faccia vedere in Rai – ok, la Mediaset gli ha già aperto le porte, ma lui per primo sa quanto siano girevoli. Quindi sì, Morgan è un tizio che sopravvive facendo spettacolo di sé stesso, ipotecando lotti di credibilità che non riscatta quasi mai. Il paragone con Sgarbi non funziona, Sgarbi non muore mai, non si consuma, è infestante come la gramigna. Morgan non sembra altrettanto immortale: diamo tutti per scontato che abbia ancora un piccolo patrimonio di visibilità e reputazione che però si sta mangiando, proprio come i rentier del tempo che fu si mangiavano la terra dei genitori.

Morgan ha più o meno la mia età, e come faccio a non capirlo. Si tratta di uscire vivi dagli anni Ottanta in Valpadana, dalla rockstar nell'era della sua riproduzione di massa, quella sensazione diffusa per cui eravamo tutti convinti che una vita da David Bowie o anche solo Simon Le Bon ci spettasse per diritto di nascita: bastava credere ai propri sogni e sperare che i genitori non mandassero in malora la fabbrichetta, il mobilificio. Ne siamo usciti quasi tutti, Morgan no: forse perché aveva appena un briciolo più di talento di altri, o forse perché ne aveva troppo poco per accorgersene, ma insomma gli è capitato questo destino di prigioniero di una dimensione dismessa, una tempolinea che non frequenta più nessuno: invece di invecchiare sbiadisce come le copertine dei Rockstar e dei Ciao2001 chiusi in uno scatolone del solaio. Morgan ci imbarazza come un Dorian Gray distorto, e allo stesso tempo ci riconcilia con la nostra mediocrità, perché lui ha effettivamente vissuto la vita di eccessi e avventure che volevamo vivere a sedici anni, e non sembra poi questa gran vita dopotutto.

Morgan del resto ha un problema, e lo sappiamo tutti qual è il suo vero problema, vero? Ecco, questa è una cosa che sento dire praticamente da sempre. Non mi è mai capitato di assistere a una conversazione su Morgan, anche solo a uno scambio di battute su un social, senza che non arrivasse qualcuno a ribadire l'ovvio, a rimarcare che insomma, dai, lo sappiamo perché si comporta così. Lui stesso, bisogna ammetterlo, non ha mai fatto molto per smentire la vox populi. E però insomma se parliamo di Sanremo, di uno spettacolo dove ci si aspetta che conduttori e artisti alle soglie dei sessant'anni ballino e cantino arzilli alle due del mattino, vuoi vedere che l'unico a indulgere nell'uso di eccitanti e vasodilatatori debba essere necessariamente Morgan? Inoltre: quand'è che cominciamo a dirci che le dipendenze non sono il movente, ma un sintomo? Sono anche uno straordinario moltiplicatore di casini, nessuno lo nega. Ma nessuno mi leva il sospetto che Morgan sia più che altro vittima del suo personaggio. Le dipendenze ti tirano fuori il peggio, esagerano i tuoi colori naturali, e si dà il caso che Morgan per campare abbia bisogno di dare il peggio di sé.

Morgan ha più o meno la mia età (e il mio sesso) e quindi non avrebbe mai potuto davvero piacermi. L'invidia mi ha sempre impedito di apprezzare i coetanei, o forse semplicemente non suonava musica che m'interessasse. Sotto la maschera da maudit mi sembrava di indovinare un piazzista e devo dire che a un certo punto ho persino iniziato ad ammirarlo proprio perché riusciva a rivendersi come un intellettuale ripetendo due o tre nozioni da ginnasio; gli bastava recitare un verso uno di Omero perché Simona Ventura andasse in brodo di giuggiole, Mara Maionchi ne parla ancora bene e in un certo senso ha ragione lei, oltre a un certo livello la cialtronaggine diventa una forma d'arte e lui quel limite spesso lo superava. Finché non succedeva qualcosa di imbarazzante, al che mi accorgevo che Morgan mi faceva pena, anzi addirittura che cominciavo a preoccuparmi per lui come per un fratello minore: che insomma stavo invecchiando più rapidamente. Ed è una cosa che mi fa rabbia, preoccuparmi per le persone che nemmeno conosco, come se quelle che conosco ed amo non mi bastassero, non mi avanzassero. Poi a un certo punto ho messo a fuoco una cosa, una cosa di cui non mi pare parlino in molti, quando capita di parlare di Morgan. La pena che provavo per lui era una reazione morale al fastidio fisico di sentirlo cantare. Avete presente la voce di Morgan? È una tortura, sia per chi l'ascolta che (suppongo) per chi la sta usando.

È un chiavistello arrugginito che non scatta più e lo stesso deve girare, girare, è straziante. Ogni verso è uno sforzo, uno strappo a una catena. Morgan ha perso la voce a un certo punto, e non gli torna. Per un po' è sembrata una menomazione momentanea, ma sono anni ormai: anni in cui ha praticamente smesso di incidere. Ci sono cantanti che sono riusciti a fare delle loro difficoltà laringali un punto di forza, ma non è il suo caso. Morgan aveva un suo timbro e l'ha perso, e si è ritrovato a trentacinque anni incapace di fare l'unica cosa che sapeva fare per campare. Poi certo, il narcisismo che serviva per non mollare a vent'anni e ti impedisce di capire dove ti trovi a quaranta; le dipendenze che ti tirano il peggio, la tv che ti chiede di fare la ruota finché non cadi e poi ti butta senza complimenti, tutto probabilmente vero. Ma niente mi toglie l'idea che alla fine certe scenate non siano che i pezzi di bravura di un tizio che deve rivendersi come cantante, cantando il meno possibile. Va bene, sì, la maschera è quella di un cialtrone arrogante, d'accordo, ma lo capite che sotto c'è un signore di mezza età con le corde vocali a brandelli? Poi uno dice le dipendenze: vorrei vedere voi cosa v'inventereste al posto suo.

Morgan alla fine ci prova a suonare, a cantare (anche se non dovrebbe più), a farci divertire, Morgan qualcosa combina sempre. Spero di continuare a sentirne parlare finché campo, perché in fondo mi ha sempre fatto ridere e litigare, che è una cosa che mi piace, ma soprattutto mi ha sempre fatto sentire meglio di lui: più colto, maturo, sobrio. I feticci televisivi a questo servono: a concimare il nostro piccolo vasetto d'autostima, a sentirci migliori di gente che alla nostra età si comporta più o meno come i compagni di classe antipatici che avevamo alle medie, e guardate che ci vuol talento anche per comportarsi così a quarant'anni. Quasi cinquanta. Jim Morrison a 27 si era già chiamato fuori, ricordiamo.
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Siamo pari

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Vi abbiamo messo al mondo in un mondo che sapevamo essere alle soglie di un'estinzione di massa. Lo sapevamo e vi abbiamo messo al mondo lo stesso, perché ci sentivamo soli e avevamo bisogno di qualcuno che ci pagasse i contributi.

Non siamo riusciti a ridurre le emissioni, non ci siamo rivoltati contro chi ci avvelenava, non abbiamo nemmeno protestato, cioè ci abbiamo provato ma ci siamo ritirati alle prime mazzate. Da chi ci ha preceduto non abbiamo imparato nulla, ma ve l'abbiamo insegnato lo stesso.

Abbiamo esaurito le risorse, esaurito gli antibiotici, esaurito l'ossigeno, il che non significa che non abbiamo smesso di parlare, di solito per farvi la predica. Vi stiamo per lasciare un mondo in macerie e tantissime armi per litigarvele. D'altro canto.

D'altro canto voi ci avete portato a vedere Me Contro Te La Vendetta Del Signor S, quindi direi che adesso siamo pari.


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Il problema coi boomer: Mattia Feltri

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Internet è così: sono bastati pochi giorni perché il tormentone "ok boomer" diventasse fastidioso. E allo stesso tempo è un meme che ha un senso e racconta davvero qualcosa di diffuso: l'insofferenza per una generazione che continua imperterrita a spiegare ai giovani un mondo che non esiste più, quel mondo che studiava a scuola e ammirava al Carosello. Facciamo un esempio? I quotidiani italiani, indovinate, sono pieni di esempi. Mattia Feltri, oggi:

A Bedonia, in provincia di Parma, gli studenti delle elementari e delle medie hanno ricevuto un’offerta allettante da Amazon: uno sconto su prodotti di cancelleria, zaini, strumenti musicali. Il sindaco non l’ha presa benissimo. Ha mandato una lettera ai ragazzi e, non potendo rilanciare sul prezzo, s’è giocato l’orgoglio di campanile: voi siete il futuro di Bedonia, comprate nei negozi del paese e lo salverete dalla multinazionale che, dietro la favola del progresso, sfrutta i nuovi schiavi (il succo è questo, la lettera è molto più garbata). 

State visualizzando la situazione? Bedonia, paesino della Val di Cento, a un'ora e mezza di strada da Parma o da La Spezia. Tremila abitanti. È lecito immaginare che esista una sola cartoleria, e che se l'indotto degli studenti venisse a cessare, chiuderebbe. Arriva Amazon e fa quello per cui è nata Amazon, ovvero dumping. Per portare zaini e cancelleria in Val di Cento, la cartoleria locale ha dei costi, Amazon li abbatte. Amazon è un prodotto della fase terminale del capitalismo: sradica i piccoli esercenti come erbacce. In attesa che la grande politica a Roma o a Bruxelles decida come tassarlo, la piccola politica è impotente. Il sindaco può solo fare un bel discorso autarchico, o come si dice oggi, sovranista.

Per carità, qui di Bismarck non se ne vedono, figuriamoci nella deliziosa Bedonia, ma era difficile mettere insieme un discorso più scalcinato e suicida. 

Un bel discorso che al giornalista boomer non piace, del resto egli è un professionista dei discorsi. Sentiamo quello che avrebbe prodotto lui.

Agli scolari, seduti ai banchi per edificare un domani da cui non siano travolti, toccherebbe invece dire: è in corso la quarta rivoluzione industriale, quella del digitale, dopo quelle del vapore, dell’elettricità e dell’informatica; le rivoluzioni destano spavento e provocano disoccupazione, e questa, più veloce, fa ancora più paura e genera ancora più diseguaglianze, ma dalle rivoluzioni si è sempre usciti con più ricchezza e più diritti... 

Ok Mattia Feltri, dunque, da dove cominciare.

Diamo per scontato che tu abbia frequentato le migliori scuole nel miglior momento della storia del mondo: sul serio ne hai portato a casa la nozione che "dalle rivoluzioni si è sempre usciti con più ricchezza e più diritti"? Ecco, vedi, questo è essere boomer. Pensare che la Storia sia solo un insieme di storie a lieto fine, dove il lieto fine era appunto la tua felicità. Più ricchezza per tutti, più diritti per tutti, Mattia Feltri, ma sei sicuro che per dire, Maria Antonietta fosse d'accordo? Più ricchezza per tutti, salvo che per i Borbone che ci hanno perso un po' di teste.

E i latifondisti?
E i vandeani?
E i Romanov?
E i kulaki?

Allora, vedi, tendenzialmente una rivoluzione è una cosa violenta, che fa sì che una classe sociale prima esclusa dalla distribuzione della ricchezza, irrompa improvvisamente in scena e si prenda quello che le spetta, e a volta anche qualcosa in più. E in ogni rivoluzione, davvero, in ogni rivoluzione ci sono vincitori e vinti. Questa cosa a scuola ti è sfuggita e in parte è comprensibile, perché la storia di ogni rivoluzione la scrivono i vincitori, mentre le tesi dei vinti tendono a scomparire (a volte scompaiono anche i vinti, letteralmente). Questo tra l'altro è il motivo per cui lo studio della Storia è una pratica tutt'altro che banale: si tratta quasi sempre di demistificare chi la racconta. Lo abbiamo sempre fatto, in realtà, ma in alcuni periodi si è rivelato più difficile.

Ad esempio nel periodo in cui crescevi tu c'era questa idea, che il benessere perlomeno in Occidente fosse ormai un diritto acquisito e inalienabile; e che il progresso fosse inarrestabile. Le cose andavano bene, e quindi sarebbero andate sempre meglio: non solo, ma a quel punto leggendo i libri di Storia vi siete convinti che anche in passato funzionasse così, che anche il passato non fosse che un'inarrestabile sequenza di vittorie, excelsior! no, sul serio, i positivisti di fine Ottocento vi facevano un baffo. Se c'era una rivoluzione su un libro di Storia, di sicuro i vincitori eravamo noi. Avevamo vinto con Cromwell, con Washington, con Robespierre (ma anche con Napoleone), e anche tutte le rivoluzioni industriali comunque le avevamo vinte noi in quanto aspiranti imprenditori, o al limite consumatori. Solo la rivoluzione russa meritava un discorso a parte, perché i russi non facevano parte della trionfante Storia Occidentale. Ok, Mattia Feltri, e magari ne sei ancora convinto.

Ma pensi che un giovane di oggi possa lasciarsi convincere da te?

Allora ti spiego, qualsiasi leghista con la terza media – no, non c'è bisogno della Bestia di Salvini, non c'è bisogno dei social network e dei fondi russi – qualsiasi leghista poco acculturato, magari uno di quelli pittoreschi che andava a Pontida con le capigliature da pellerossa: qualsiasi leghista del genere ha capito il problema di Bedonia meglio di te. Magari non ha fatto le tue buone scuole, ma in scuole peggiori ha comunque capito che ogni rivoluzione ha vincitori e vinti, e noi non siamo sempre i primi.

Non siamo sempre i giacobini. A volte siamo i vandeani, magari non avremmo voluto, ma le Rivoluzioni non sono un gioco in cui puoi scegliere all'inizio da che parte stai. La rivoluzione americana non l'hanno vinta tutti. Gli inglesi per esempio l'hanno persa, e i pellerossa nel medio termine ancor di più. Se vivi a Bedonia, e la rivoluzione è Amazon, il pellerossa sei tu, e questa cosa l'aveva capita persino Umberto Bossi – anche lui un boomer, tecnicamente. Perché ce n'è anche di svegli.

Tu invece, caro Mattia Feltri, ai pellerosse della Val di Cento, cosa vorresti raccontare? Fammi indovinare: che resistere è inutile, un'illusione, e si salveranno soltanto scappando in città? Ma non mi dire.

...e resistere al mondo che cambia è un’illusione nella quale l’uomo si è spesso malamente impantanato; la politica dovrà fare il suo, ma voi studiate perché nei Paesi più tecnologicamente avanzati di disoccupazione ce n’è meno; studiate qui e poi andate in un’università a studiare l’interazione tra uomo e macchina, l’intelligenza artificiale, la robotica, il management, l’ingegneria, prendetevelo questo mondo, non scappate, prendetelo per il bavero e rendetelo migliore.

Studiate intelligenza artificiale, studiate robotica, e vincerete. Tutti? C'è posto per tutti nelle facoltà di ingegneria e robotica? Il senso stesso della robotica non è ridurre i compiti degli esseri umani? Il boomer sa benissimo che la sua ricetta, la "ricerca della felicità", è un sentiero stretto che lascia indietro la maggior parte dei concorrenti. Ma non ha importanza: importa soltanto che chi arriva alla fine del talent show possa raccontare a tutti che ha vinto, e se ha vinto lui tutti possono seguirlo. I ragazzi se ne vadano tutti a studiare lontano: uno su cento ce la farà, gli altri falliranno ma non avranno spazio per lamentarsene sui giornali, qualcuno tornerà al paesino tra i monti e lo troverà disabitato, o occupato da immigrati più poveri, o nel caso migliore (migliore?) trasformato nel museo delle cere di sé stesso mediante Airbnb. Cosa dire.

Davvero, cosa dire a Mattia Feltri ancora convinto di vivere nel migliore dei mondi possibili. Qualche argomento potrebbe fargli cambiare idea? In fondo per lui è stato davvero il migliore dei mondi: non cambierà idea. E non si sposterà da dov'è, e continuerà a spiegarci che per vincere basta impegnarsi. Ok.

Sul serio, che altro dirgli – ok boomer.
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Che cultura ti fai col bonus cultura

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[Questo pezzo è apparso ieri su TheVision]. C’è stato un mattino, sulla fine della primavera, in cui i nati nel 2000 e nel 2001 si sono svegliati con 500 euro in meno. Il Consiglio di Stato si era appena accorto che il governo Gentiloni non aveva lasciato scritto dove avrebbe preso i 200 milioni di copertura necessari; il neoministro Bonisoli, bocconiano di area 5Stelle, ha pensato bene di farsi conoscere al grande pubblico con una dichiarazione roboante e piuttosto maldestra: facciamo venire la fame di cultura ai giovani, rinuncino a un paio di scarpe. Ben fatto ministro Bonisoli, ora tutti immaginiamo i tuoi figli calzati con scarpe da 500 euro.


Persino in questa fase di luna di miele, in cui gli esponenti del nuovo governo raccolgono applausi anche quando suggeriscono schedature su base razziale, l’uscita di Bonisoli deve essere stata giudicata disastrosa se nel giro di 48 ore ha dovuto rimangiarsela: da qualche parte i 200 milioni sono stati trovati, il bonus ci sarà anche nel 2019. In commissione cultura i senatori 5Stelle non hanno smesso di borbottare: è solo una mossa elettorale, se davvero si tratta di promuovere la cultura tra i giovani ci vorrebbe qualcosa di più strutturale. Sagge parole che non costano nulla: senz’altro si può fare qualcosa di più “strutturale” che infilare 500 euro in tasca ai 18enni (con l’obbligo di spenderli in sei mesi), ma cosa?


Bisognerebbe fare un ragionamento più ampio sul concetto di cultura; servono idee, serve tempo. Cinque anni fa Matteo Renzi non ne aveva: doveva svecchiare l’immagine della sinistra e ampliare il suo bacino elettorale in tempi brevissimi. I bonus un po’ a pioggia, ai giovani, ai docenti, agli impiegati, non erano una misura né strutturale né elegante, ma facevano notizia e all’inizio sembravano funzionare. Oggi il M5S, ancora impegnato in una delicata campagna per i ballottaggi, non si trova in una situazione così diversa: per gareggiare con le sparate quotidiane di Salvini non può permettersi di scoprirsi su nessun fronte; se la cultura giovanile non è la sua priorità, Di Maio non può nemmeno rischiare di passare per il politico che ha tolto ai diciottenni 500 euro di libri, o addirittura di scarpe – Bonisoli, ma che ti ha detto il cervello? Proporre ai 18enni di fare a meno delle scarpe. Maria Antonietta in confronto con quella cosa della brioches fu una grande comunicatrice (in realtà non disse mai quella cosa delle brioches. L’ho scoperto su Wikipedia).


Insomma il bonus elettorale resta, e la discussione su cosa sia la cultura e su quale sia il modo migliore di promuoverla è rimandata a data da destinarsi. Se vi va possiamo cominciarla qua sotto, gratis. Partirei da un’osservazione empirica: a 18 anni, non so voi, ma io non è che ne capissi molto in generale. Ero un coglione. In altri Paesi europei mi avrebbero aiutato a uscire di casa o a trovare un lavoro; ma se mi avessero infilato in tasca 500 euro e mi avessero costretto a spenderli in “cultura”, li avrei spesi in stronzate. Per fortuna nessuno si era già fatto venire questa buffa idea. E siccome avevo comunque fame di “cultura”, qualsiasi cosa fosse, mi avreste trovato spesso in biblioteca. Nelle città in cui mi è capitato di vivere ce ne sono di meravigliose: le amministrazioni di sinistra in particolare ci hanno investito, aggiungendo al tradizionale prestito dei libri anche quello di CD e DVD originali (tutti con la loro brava scritta “proibito il noleggio”). Ho una grande nostalgia per i miei pomeriggi di ozio in quegli ambienti luminosi e tranquilli, ma mi domando se non rischio davvero di sembrare quel tipo di persona che cerca di infilare il gettone telefonico nell’Iphone, una volta Renzi li descriveva così. Che senso ha insistere su un luogo fisico, ancorché pubblico, oggi che la cultura tende a smaterializzarsi – noleggiare CD e DVD, nell’era di Spotify e Netflix? Un’app che produce voucher è meno scenografica di una biblioteca, ma forse è più adatta ai tempi, così come uno smartphone è più comodo di una cabina telefonica (continua su TheVision).



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Quando i citofoni erano bianchi (e gli hacker giocavano ai "videogames")

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Michele Serra non capisce gli hacker. È stato lui stesso a sentire l’esigenza di spiegarcelo, qualche giorno fa, quando la polizia postale ci ha informato di aver identificato Evariste Galois. Galois l’estate scorsa aveva bucato Rousseau, il cosiddetto sistema operativo del Movimento Cinque Stelle. Nell’occasione Galois si era dimostrato un perfetto “white hat”, o hacker etico: lo scopo della sua intrusione non era rubare dati sensibili, ma segnalare ai gestori del sito una vulnerabilità (evidentissima, peraltro). Secondo Serra avrebbe fatto meglio ad “accontentarsi dei videogames, o dei tornei di matematica”. “Non capisco che cosa spinga lui [l’hacker] e i suoi simili al virtuosismo informatico, alla violazione di ogni porta, alla messa a nudo di ogni meccanismo. Una destrezza fine a se stessa, come i free-climber ai quali non interessa la vetta, ma la bellezza del gesto?”

Magari, anche, perché no. Ma tra i tanti bei gesti che può commettere un virtuoso o uno sportivo, avvisare il pubblico e i gestori di un sito delle falle di sicurezza non sembra davvero il più fine a se stesso. A quel punto, se i gestori del sito fossero stati tempestivi, non ci sarebbe stata nessuna fuga di materiale sensibile: ma non lo furono, e nel giro di pochi giorni i dati furono trafugati da un hacker “black hat”, Rogue0, che li mise in vendita: anche lui a quanto pare è stato identificato dalla polizia postale, ma tutto ciò a Michele Serra pare non interessare.
E a questo punto forse qualcuno ha già un forte sospetto su dove voglio andare a parare: un altro pezzo sugli editorialisti di mezza età che non riescono più a parlare ai giovani? Babyboomers contro millenials, ancora? Ecco, in realtà no. Anzi forse il problema è proprio l’opposto: questa non dovrebbe essere una questione generazionale. Per quanto possano essere giovani Evariste e Rogue0, quello che hanno fatto (bucare un sito) è una prassi vecchia quanto l’informatica, e l’informatica non è poi giovane: se assumiamo che sia nata mentre Alan Turing tentava di bucare Enigma, è un po’ più vecchia di Serra. Che per quanto ormai ami crogiolarsi nel suo personaggio di gentiluomo di campagna, quando al cinema uscì Wargames aveva trent’anni. Più di trent’anni dopo, la figura dell’hacker che passa sui quotidiani italiani assomiglia ancora terribilmente al personaggio interpretato da Matthew Broderick all’inizio del film, che per far colpo su una ragazza entrava nel registro elettronico della sua scuola per alzarle la media (a metà film aveva già bucato il Pentagono e portato il pianeta a un passo dalla Guerra Termonucleare Globale). Un ragazzo che si mette a giocare e combina solo disastri. Perché non si concentra sui “videogames”?


Nel frattempo il paesaggio tutt’intorno è parecchio cambiato. Oggi milioni di italiani usano internet non ancora per dichiarare la guerra al vicino, ma controllare gli estratti conto, votare i candidati Cinquestelle, prenotare visite mediche o i colloqui con gli insegnanti dei figli – sì, adesso anche nelle scuole statali c’è il registro elettronico! Ci abbiamo messo trent’anni, ma oggi anche i nostri insegnanti possono essere bucati come quelli di Matthew Broderick nel 1982. L’hacking non è mai stato un argomento così importante come oggi, e non per i “giovani”. Non sono i giovani d’oggi a temere che il sito della loro azienda venga bucato o defacciato; o a rischiare un infarto se scoprono che il loro pc è stato infettato da un ransomware (una minaccia che a volte viene sventata proprio dagli hacker). Sono rischi concreti per milioni di italiani.



A proposito di milioni di italiani: la stessa sera in cui si stampava l’Amaca di Serra sugli hacker, dal teatro Ariston di Sanremo Biagio Antonacci invitava il pubblico in eurovisione a metter via i cellulari e a usare il citofono (continua su TheVision...) Una battuta fantastica, che in poche parole mette a fuoco l’universo strapaesano del Festival della Canzone: l’Italia come un enorme villaggio in cui tutti i tuoi amici non possono che vivere a qualche isolato da casa tua – e se per tenerti in contatto con loro usi whatsapp è solo perché sei pigro, pigro, dai, valli a suonare (chissà poi Antonacci a che numero civico sta). E poi questa idea che esista una tecnologia cattiva, alienante, disumana (lo smartphone) e una buona, rassicurante (il citofono). Vengono in mente le regole di Douglas Adams sulla tecnologia: “Qualunque cosa esista nel mondo quando nasciamo, ci pare normale e usuale e riteniamo che appartenga per natura al funzionamento dell’Universo [...] Qualunque cosa sia stata inventata dopo che abbiamo compiuto trentacinque anni va contro l’ordine naturale delle cose”. È quell’“ordine naturale” che viene descritto in tanti film italiani dove tutte le tecnologie che hanno radicalmente cambiato la nostra vita negli ultimi trent’anni sono sempre descritte come orpelli inutili e dannosi di cui è necessario liberarsi per riscoprire un’esistenza più pura, magari in una masseria in Puglia, un casolare in Toscana o in qualche altra angolo remoto dove il cellulare non prende (ormai solo nella finziona cinematografica), ma il citofono, lui sì. L’ultimo film di Federico Moccia si intitolava proprio Non c’è campo. In una delle commedie più viste l’anno scorso, Beata ignoranza, due insegnanti con un approccio antitetico alle tecnologie si scambiano i ruoli: Alessandro Gassman buttando via il cellulare, ovviamente, riscopre il piacere dell’interazione sociale (ovvero si iscrive a un corso di teatro). Marco Giallini, che orgogliosamente si teneva al di fuori da ogni social network, fa una rapida immersione in un mondo insano, gioca agli sparatutto coi suoi studenti e verifica che le recensioni on line dei ristoranti sono tutte false.

Perché gli sceneggiatori italiani, i cantanti italiani, i giornalisti italiani, si fidano così poco delle nuove tecnologie – che pure adoperano quotidianamente? È come se ci trattassero tutti come Cazzullo tratta i suoi figli: metti via quel cellulare. L’ipotesi più semplice è che siano gelosi: su quel cellulare ci può essere un articolo più interessante di quello di Cazzullo o di Serra, o un film più divertente delle commedie italiane in sala, o una canzone più originale dell’ultimo successo di Antonacci. Più in generale, si percepisce la sensazione che queste nuove tecnologie, per quanto comode, non siano che passeggere: qualcosa che prima o poi se ne ritornerà da dove è venuto, e saremo di nuovo liberi di contemplare i tramonti e chiamarci al citofono. Dietro a questo fastidio per la modernità, c’è un’osservazione persino banale: la rivoluzione digitale è qualcosa che ha completamente spiazzato la nostra industria. Non ce l’aspettavamo: l’abbiamo vista arrivare e salvo qualche eccezione quasi miracolosa non siamo stati nemmeno capaci di inseguirla. A un certo punto è come se ci fossimo semplicemente seduti in un angolo, gli occhi chiusi, nell’attesa irrazionale che tutto questo passi.
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I giornalisti italiani non parlano ai ventenni

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Buon Anno a tutti – capita anche a voi che i nuovi calendari diano le vertigini? Certi anni hanno dei nomi che da bambino associavo più ai film di fantascienza che alla possibilità di arrivarci vivo. Prendi “2018”, poteva essere il titolo giusto per un romanzo sui sopravvissuti della Terza Guerra Mondiale, non l’anno in cui cambio un lavoro o decido di comprare una macchina nuova (nemmeno volante). Ma forse la vera vertigine è notare come certe cose anche futili restino al loro posto, mentre tutto il resto (giorni, settimane, mesi, governi, legislature) accelera. Per esempio la settimana scorsa, sulla prima del Corriere, mi è capitato di leggere la parola “Tafazzi”. Ancora. Possibile?

È stato Gramellini. Dovendo definire l’autolesionismo dei senatori Pd – che hanno contribuito a far mancare il numero legale sull’ultima votazione per lo ius soli – ha deciso di evocare “il ritorno di Tafazzi”. Questa è forse una buona notizia: almeno è un “ritorno”, insomma, pare che per un po’ Tafazzi non sia stato tra noi. Non solo, ma delle venti righe che ha a disposizione, il giornalista decide di spenderne almeno un paio a spiegare di chi si tratti: per fortuna il personaggio non merita veramente più di questo. “Tafazzi era l’omino di uno sketch televisivo interpretato da Giacomo Poretti che si martellava il basso ventre a bottigliate”: davvero niente da aggiungere, a parte che gli stessi autori (Aldo, Giovanni e Giacomo) lo definivano “lo zero comico assoluto”, e lo utilizzarono per lo più in brevissime gag nella trasmissione Mai dire Goal tra 1995 e 1996. Ci siete? parliamo di una macchietta che si prendeva a bottigliate nelle palle in alcuni sketch andati in onda ventidue anni fa. Ventidue anni fa.

Com’è che ne stiamo ancora parlando?

La vertigine.

Quello che sta facendo Gramellini – quello che Gramellini è bravissimo a fare – si può definire “riferimento alla cultura pop”. Ha due precise funzioni: (1) creare complicità con chi condivide la stessa cultura pop e (2) tagliare fuori tutti gli altri. In effetti di solito questi riferimenti hanno una precisa dimensione generazionale, e tendiamo a riservarli alle conversazioni tra amici. E forse dovrebbe lusingarmi il fatto che io possa ridere a una battuta del giornalista, ti ricordi di quando Giacomo si martellava le palle su Italia1? Ahah, che metafora della sinistra, a quasi un quarto di secolo di distanza. Sul serio, cosa c’è di male? Tafazzi ha 2340 risultati su Google, “tafazzismo” e “tafazzista” sono entrati nella Treccani senza destare un decimo delle polemiche riservate a “petaloso” (che nella Treccani ancora non c’è). Cos’è che mi infastidisce così tanto (a parte l’immagine di Giacomo in calzamaglia?)

C’è che gli amici che ridono cominciano a diradarsi. I quotidiani cartacei hanno perso il 50% dei lettori in dieci anni – aumentando, nel frattempo, appena del 4% su web. Le indagini sulla lettura ci confermano che la percentuale degli italiani che legge un libro oscilla da un decennio intorno al 40%. Dunque, non solo molta gente della mia età ha smesso di leggere libri e giornali, ma moltissima gente più giovane di me non ha mai iniziato. Quand’è l’età giusta per imparare a leggere un giornale? Io al liceo lo compravo. Non è che capissi tutto, ma potevo farcela. E un ventenne di oggi ce la può fare, visto quello che ci viene scritto sopra? Me lo domando spesso.

E quando leggo “il ritorno di Tafazzi” in prima pagina, mi rispondo: No. I ventenni del 2018, quando Tafazzi si sbottigliava le palle su Italia 1, non erano nemmeno nati. Non è una questione di comprensione del testo – alla fine se uno ha pazienza di leggere due righe il giornalista è pure disposto a condividere con il giovane lettore la fondamentale nozione di storia della tv degli anni ‘90 – ma chi ce l’ha quella pazienza? Se io avessi vent’anni oggi, e uno smartphone in tasca, al primo “Tafazzi” cliccherei altrove. Non saprei chi sia e nemmeno m’interesserebbe. Nome già sentito, roba da vecchi. Perlomeno ai miei tempi ragionavamo così, ogni volta che fiutavamo qualche riferimento a commedie italiane in bianco e nero o dialoghi di western con John Wayne – c’è puzza di vecchio qui, filare. A meno che nel frattempo la soglia di attenzione degli adolescenti non sia aumentata – ahahah, NO (continua su The Vision, dopo la foto di Mentana).



I giovani italiani non leggono i giornali, né su carta né altrove, e forse non li leggeranno mai. È colpa di Gramellini che si ostina a scrivere “Tafazzi” come andava di moda vent’anni fa? No. Credo che più che una causa rappresenti un sintomo. C’è una generazione di giornalisti che ai potenziali giovani lettori ha consapevolmente volto le spalle; ha fatto due calcoli e si è resa probabilmente conto che la fatica di trovare un nuovo linguaggio per recuperare i venti-trentenni non li ripagherebbe del rischio di perdere l’unica (semi)solida certezza: il pubblico ultracinquantenne.


Questi calcoli li possiamo fare anche noi: non sono difficili. Solo un po’ deprimenti. Durante le feste qualcuno è stato così gentile da allungarmi un link a un sito che non solo mi ha ragguagliato sulla data della mia probabile morte (quella più o meno l’avevo già calcolata), ma anche sulla mia posizione rispetto al resto della popolazione mondiale o nazionale. Dunque.





La cosa interessante è che mentre sono entrato a far parte già da un po’ del terzo più vecchio della popolazione mondiale, in Italia farò ancora parte per qualche anno della metà più giovane – il che è molto indicativo di quanto sia sbilanciata verso l’alto l’età media di noi italiani.


Ma che senso ha parlare di me? Stavamo parlando di Gramellini, che invece si trova qui:




Insomma ha appena scollinato, e questo spiega in parte il suo successo – è come se dalla sua terrazza Gramellini dominasse tutta la vallata che dalle vette dei Cinquanta-e-qualcosa declina lentamente verso i Novanta. Tutti quei declivi li conosce a memoria: sono il paesaggio che ha avuto davanti a sé da quando è nato. Conosce ogni sentiero e ogni modo di dire, sa dove si nasconde il Tafazzi e il Sarchiapone e ogni altra bestia fantastica dell’immaginario dei suoi lettori. Si trova nella posizione ottimale per echeggiare la porzione della popolazione italiana che i giornali ancora li legge.


La discesa non diventerà particolarmente ripida ancora per un pezzo; quanto agli abitanti della vallata a sinistra, tentare di raggiungerli non vale probabilmente la fatica di aggiornarsi. È viceversa ai venti-trentenni che viene chiesto lo sforzo di decifrare gli oscuri riferimenti alla cultura pop del secolo scorso: per fortuna c’è Google, oppure si può dare un’occhiata alla tv – specialmente alla Rai, che da questo punto di vista non è venuta meno alla sua missione di servizio pubblico: negli anni ‘60 insegnava l’italiano agli analfabeti, oggi in prima serata con il suo programma di punta (Techetechetè) insegna gli anni ‘60-’70-’80 a chi ha avuto la tremenda sfortuna di essere nato dopo.


Il grafico non è utile soltanto per mostrarci quando moriremo: ci fornisce anche una previsione ragionevole sul momento in cui auspicabilmente non sentiremo più parlare di “Tafazzi” e “tafazzismo” – più o meno verso il 2040. A quel punto Gramellini sarà sugli 80, che già oggi in Italia per un editorialista è un’età ragguardevole ma non eccezionale: Scalfari ne ha 93, Sartori ne aveva 90 quando si arrabbiò perché al Corriere gli toglievano i corsivi dalla prima pagina senza il suo permesso

Non è invece affatto facile capire cosa succederà, nel frattempo, nel mondo dell’informazione in lingua italiana: che riferimenti culturali condivideremo quando i babyboomers andranno in pensione (tardi) e non sarà più indispensabile comunicare con loro e attraverso loro? Esisterà una lingua comune che i millennial italiani possano adoperare o finiranno per usare anche loro “tafazzi” come sinonimo colorito per “masochista”, anche quando si sarà del tutto persa l’immagine terribile di Giacomo sbottigliantesi i testicoli? Non saprei. So che prima o poi dovremo preoccuparcene – il 2040 in fondo è tra poco più di vent’anni.



(La vertigine).
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Tra due dinosauri, scegli quello in via d'estinzione: vota NO.

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21) Poi c'è chi voterà Sì ben sapendo che si tratta di una riforma brutta, scritta male, che probabilmente complicherà le cose, rendendo il clima politico ancora meno respirabile, ma l'alternativa è peggio, perché l'alternativa sarebbe... D'Alema. O Berlusconi. Insomma i vecchi.

Che è un po' la storia che il Sì ha cercato in tutti i modi di raccontare nelle ultime settimane, quelle in cui Renzi, potendo scegliersi un avversario da talk show, ha optato per Ciriaco De Mita. Contro di noi c'è l'accozzaglia, contro di noi i pensionati, contro di noi i dinosauri. Restando nel campo della buona fede, prendiamo Francesco Costa:

Cos’altro succederebbe con una vittoria del No? Un’intera anziana e vastissima generazione politica si guadagnerebbe il diritto a un ultimo giro di giostra: da Brunetta a D’Alema, da Bersani a Berlusconi, da Maroni a Monti, da Gasparri a Fassina, persone che hanno fatto in modi diversi la storia della Seconda Repubblica e ora sono sul punto di uscirne, come fisiologicamente accade in ogni democrazia, conquisterebbero nuova centralità e vitalità nei loro partiti e quindi nel paese. Lo dico a prescindere dal giudizio nei loro confronti: è un fatto che alle successive elezioni bisognerebbe ancora, di nuovo, fare i conti con loro.

22) Il momento in cui i renziani hanno sorpassato
a destra la Casaleggio, occupando pagine di facebook
con meme beceri creati per l'occasione
(vedi Leonardo Bianchi su Vice).  Che a pensarci
è già un altro ottimo motivo per votare No. 
Questo argomento immagino abbia sicura presa coi trentenni, specie se cognitari: gente che tutti i giorni si misura nel luogo di lavoro con capi incompetenti che hanno il doppio della loro età (ehm no, non è il caso di Costa, ma per capirci). Cosa potrei obiettare? Secondo me non è vero: non vedremo D'Alema, Monti o Bersani in primo piano alle prossime elezioni. Non funzionerebbero - non credo stiano funzionando nemmeno adesso, non sono loro a spingere il No: al massimo sono un bersaglio comodo per la propaganda del Sì. Berlusconi è un discorso a parte, per gli interessi dell'azienda che rappresenta (e che gli sopravviverà). Ma alla fine non è tanto questo il problema.

Fingiamo che davvero ci sia una lotta generazionale, dinosauri contro rottamatori; fingiamo che tutto si decida conquistando i ventenni e i trentenni, ebbene: cari ventenni, cari trentenni, pensateci bene. Tra il dinosauro in via d'estinzione e quello che ha la vostra stessa età, con chi scegliete di combattere?

Sul serio: da una parte gente che ormai ha dato tutto quello che doveva dare. Bersani non dirigerà più il Pd, Monti non è più un nome spendibile per Palazzo Chigi. Berlusconi al limite può fare ancora il kingmaker, con esiti per ora mediocri. Ma Renzi, se lo votate, non ve lo levate più dal groppone. Fin qui l'anagrafe giocava dalla vostra parte, ma (cari trentenni) non sarà sempre così.

Ok, siete abituati a misurarvi nel luogo di lavoro, tutti i giorni, con colleghi e superiori incompetenti più vecchi di voi. Ma fateci caso: cominciano a farvi posto. Cominciano a chiedervi come funziona la tal procedura, perché ormai è innegabile che siate più svelti. Cominciano ad andarsene in pensione. E tra un po' se ne saranno andati tutti. Ma siate sinceri: il clima sta migliorando? Guardatevi attorno: non li vedete i trenta-quarantenni arroganti, quelli convinti di aver capito le cose meglio di voi, quelli che combinano casini pasticciando con le procedure e poi cercano di addossare la colpa a qualcun altro - magari a voi? Quelli che si credono d'aver capito qualcosa, quelli che pensano di poterla spiegare a tutti, quelli in pensione non ci andranno per un pezzo? Capace che vi ci mandino voi. Quelli, se non vi date da fare, ve li tenete finché campate.

Lo so che è uno choc. Fin qui qualsiasi persona odiosa, qualsiasi coglione, per quanto insopportabile, aveva pure una data di scadenza. C'era qualcosa di irresistibilmente comico nella deriva senile di Berlusconi: da una parte le faceva enormi, dall'altra si capiva che non sarebbe durato. Ma avete dato un'occhiata a Renzi, alla Boschi? Quelli non scadranno ancora per tanto, tanto tempo. E vi dicono che dovete scegliere: o loro o quelli vecchi. Io non avrei dubbi, davvero. Di motivi per votare No ne ho tanti altri, e un po' più seri: ma se è una questione generazionale, si risolve alla svelta. Tra due prede da inseguire, sempre scegliere quella stanca e ferita. Tra due nemici, sempre guardarsi dal più giovane e in forze. Lasciate che i morti seppelliscano i morti e votate No.

Gli altri motivi:

1. Non si riscrive la carta costituzionale col martello pneumatico.
2. Non si usa una brutta legge elettorale come moneta di scambio.
3. Non mi piacciono le riforme semipresidenziali.
4. Meglio un Renzi sconfitto oggi che un Renzi sconfitto domani
5. Mandare 21 sindaci al senato è una stronzata pazzesca
6. Mandare sindaci al senato è davvero una stronzata pazzesca.
7. Nel nuovo Senato alcune Regioni saranno super-rappresentate, ai danni di altre
8. Si poteva scrivere meglio, ma non hanno voluto.
9. Di leggi ne scriviamo già troppe: non abbiamo bisogno di scriverne di più e più in fretta, ma di farle rispettare
10. Il numero di firme necessarie per richiedere un referendum abrogativo va aumentato e basta
11. Non è vero che sarà più facile approvare leggi di iniziativa popolare, non fate i furbi.
12. Dio ci scampi dai referendum propositivi.
13. Il Presidente della Repubblica non sarà necessariamente una figura sopra le parti.
14. Gli abitanti delle città metropolitane non avranno il diritto di eleggere i loro rappresentanti? Ma siete scemi?
15. Chi abolisce le Province non capisce il territorio.
16. Se passa la riforma, per un po' ce la dovremo tenere; se non passa, possiamo subito proporne una migliore
17. Perché non vorresti mai darmi ragione.
18. Perché "NO" almeno sai come si scrive
19. Se vuoi risparmiare taglia le poltrone; costringere sindaci e consiglieri a sedere su più poltrone contemporaneamente è una cattiva gestione delle risorse.
20. Perché anche se vincesse il Sì, la riforma non sarà stata approvata dalla maggioranza dei cittadini.
21. Perché tra due generazioni di dirigenti poco capaci, la più pericolosa è quella giovane e ancora in sella.
22. Perché la propaganda renziana è scesa a livelli intollerabili.
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Poteva andarti peggio, potevi nascere in una famiglia situazionista

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La famiglia Fang (The Family Fang, Jason Bateman, 2015).

Sono traumi che uno poi si porta dietro per tutta la vita, capite
Chi ha rovinato i fratelli Fang? Anne è un'attrice già di successo, con problemi di alcol, di casting, di età. Suo fratello Baxter è uno scrittore di successo con problemi di pillole e il terzo libro bloccato al terzo capitolo. Se solo avessero avuto due genitori normali, e non due artisti d'avanguardia che hanno movimentato la loro infanzia rendendoli protagonisti di scherzi cretini... come si dice in italiano First World Problems? Forse è troppo tardi per inventarsi una traduzione, man mano che quel primo mondo scompare all'orizzonte con tutti i suoi conflitti generazionali immaginari.

Forse non è solo merito di Cristian Mungiu se i problemi di un padre di famiglia nella Romania in sfacelo mi appassionano di più di quelli di due quarantenni wasp di successo, ancora arrabbiati coi genitori che non li hanno portati in gita col camper nel Grand Canyon. Forse Nicole Kidman (che ha fortemente voluto il film, e lo ha prodotto), per quanto credibile nel ruolo di grande attrice perennemente insicura, non lo è altrettanto nel ruolo di orfana irrisolta; forse Jason Bateman, a cui non manca il mestiere, ha perso del tutto di vista l'aspetto comico della situazione (che a un Baumbach, per esempio, non sarebbe sfuggito). 

Interpreta il ruolo di un'attrice che per restare sulla breccia
comincia a concedere scene in topless.
(Ma siccome la vera Kidman non è messa così male,
questo è tutto il topless che vedrete).

Forse l'autore del libro, Kevin Wilson, è stato abbastanza furbetto da inserirsi nel filone dell'eterna guerra tra la generazione X e i baby-boomers, costruendosi a tavolino l'avversario più facile del mondo: gli artisti concettuali, sempre sui loro piedistalli immaginari, il narcisismo imbastito all'accademia e mai più messo in discussione che si rivela, a una certa età, misantropia bella e buona. Se almeno fossero personaggi realmente esistiti... (continua su +eventi!)

Se almeno fossero personaggi realmente esistiti, li si potrebbe odiare un po' e poi farsi venire un po' di pena per loro, ma se li è inventati Wilson, e se si è lasciato sfuggire una stilla d'umanità di troppo, Bateman non l'ha vista. Se è molto facile prendere le distanze da due sessantenni che credevano di cambiare il mondo con le candid camera, dall'altra si fa più fatica del previsto a empatizzare con un autore di saghe young adult affetto da blocco dello scrittore e un'attrice quarantenne che riuscirà a realizzarsi soltando recuperando qualche parte prestigiosa a Hollywood.


Ragazzi, alla vostra età non dovreste essere voi quelli
che sloggiano i figli da casa?

La famiglia Fang non è un film sgradevole, ma conferma qualche sospetto sullo stato del comedy-drama statunitense: è un film che vorrebbe toccare qualche corda in modo delicato, e invece non fa che urlare per tutto il tempo: LASCIATI ALLE SPALLE I TUOI GENITORI (le musiche, intrusive e paracule, hanno la loro parte di responabilità). Credevo che non avrei mai scritto una cosa del genere, ma un film così mi fa venir voglia di riguardarne uno italiano di qualche stagione fa, Anni felici di Luchetti, che parlava di cose simili ma osservate dal vero, con una delicatezza e una profondità che Bateman e soci si scordano. E dire che al tempo mi ero pure concesso il lusso di parlarne male, Luchetti se puoi perdonami. La famiglia Fang è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:10 e alle 22:30.
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Art. 140: la generazione di Cacciari e Serra ha...

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"Qui non si parla di assetto dello Stato, qui si parla di noi!"
Da quel che ho capito sia Massimo Cacciari (classe 1944) sia Michele Serra (1954) voteranno sì al referendum sulla riforma costituzionale di Renzi; da quel che ho capito né Cacciari né Serra stimano Renzi o lo considerano capace di proporre una buona riforma costituzionale. Per Cacciari è stato maldestro, per Serra è addirittura la nemesi della sinistra italiana: e tuttavia è il male minore, e quindi voteranno per lui. Contro un male peggiore che, a quanto pare, si è incarnato in una generazione precisa: ovvero quella di Massimo Cacciari e Michele Serra.

"Abbiamo provato a riformare le istituzioni per quarant'anni, e non ci siamo riusciti. La strada della grande riforma sembra un cimitero pieno di croci, i nostri fallimenti. Adesso Renzi forza, e vuole passare", dice Cacciari (senza menzionare, non si sa se per dimenticanza o dispregio, la non irrilevante riforma del 1999). "Non abbiamo la faccia", noi sinistra, noi classe dirigente del Paese, noi italiani senzienti e operanti tra i Sessanta e il Duemila (e rotti) per giudicare con la puzza sotto il naso il lavoro di un governo di giovanotti avventurosi e forse avventuristi", conferma Serra. E così, insomma, anche questo referendum non sarà l'occasione di parlare della riforma in sé, del senato pleonastico o dell'abolizione delle province e tutte le altre cose un po' strane e noiose, ma un'altro episodio della biografia di una generazione, la solita.

Non è che Cacciari e Serra escludano categoricamente quel che alcuni costituzionalisti denunciano, ovvero che la riforma, abbinata al nuovo sistema elettorale, possa creare un presidenzialismo di fatto: non spendono una sola riga per smentire la possibilità, o per relativizzare il rischio. No, il rischio c'è, ma voteranno Sì lo stesso, perché... perché hanno fretta, la stessa fretta espressa a suo tempo dal presidente Napolitano; e perché è una buona occasione per ricordare a tutti che la Loro Generazione Ha Perso: un messaggio da mandare a tutti i coetanei che li hanno delusi, che hanno perso tempo colle bicamerali e chissà quanti altri sassolini nelle scarpe.

Dove non si capisce per quale motivo una qualsiasi persona più giovane di loro dovrebbe non dico condividere i loro argomenti, ma trovarli degni di nota. Quando si parla di una riforma della costituzione, si parla del nostro futuro: di come abbiamo intenzione di modellarlo. Abbiamo cura della nostra repubblica? Teniamo più alla governabilità o alla democrazia? Vogliamo difenderla dagli assalti periodici degli aspiranti Uomini della Provvidenza, che non saranno necessariamente affabili e umani come Matteo Renzi? Se abbiamo delle responsabilità, le abbiamo nei confronti di chi verrà dopo di noi; quanto alle beghe generazionali, son cose interessanti da scrivere nei libri che i vostri coetanei, assetati di autocritica quanto voi, correranno a comprarsi: oppure da discutere in privato, possibilmente senza disturbare figli e nipoti che farebbero un po' di fatica a capirle, e sarebbe una fatica abbastanza inutile. Avete sessanta o settant'anni, si è capito: il futuro vi interessa relativamente, sta bene: ma perché agli altri dovrebbe interessare di più il vostro passato? Fallimentare o no, è passato.

Io capisco che Cacciari e Serra ci tengano tanto, a ribadire che D'Alema o Veltroni o altri compagni di classe e di strada erano degli inetti; allo stesso tempo non credo sia un motivo sufficiente per votare e imporre ai loro discendenti una riforma brutta e pericolosa. Se proprio ci tengono, se proprio credono sia necessario e significativo, si potrebbe aggiungere una postilla alla Costituzione, magari un articolo finale che reciti: la generazione di Serra e Cacciari ha perso. Basta una riga, e non c'è bisogno di creare un senato di dopolavoristi o sbilanciare l'equilibrio dei poteri. Se sul serio l'autobiografia è l'unica cosa che vi interessa.
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Uno schiaffo (con affetto) a Zambardino

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Siccome a Vittorio Zambardino voglio bene, lo schiaffo che gli darei è da intendersi come affettuoso, ma pur necessario come quello che si dà a un compagno in choc: ehi, sei ancora tra noi? Cioè sul serio pensi che i tizi in felpa nera si siano decisi a dar fuoco a Milano solo dopo aver scoperto che Erri De Luca riconosce agli oppressi il “diritto-dovere di sabotaggio”?

Quando scrivi che ti senti colpevole, tu e la tua generazione che ne ha dette e fatte tante... non so quanti scheletri tu abbia nell’armadio, però lo capisci che non c’entra più niente? Che i ragazzi in felpa non hanno la minima idea di chi voi siate e di che abbiate fatto di buono e di cattivo; che “l’ambiente informativo che abbiamo dato ai nostri figli” ha su di loro un sedicesimo dell’influenza che può avere Assassin’s Creed?

Che si va ai riots a Parigi o Londra per l’adrenalina; per provare il proprio coraggio ed emulare i compagni più grandi che esibiscono cicatrici e raccontano di epiche battaglie; per i triti motivi per cui cent’anni fa si partiva volontari e mille fa s’andava alle crociate; e in tutto questo il ruolo tuo, di De Luca e della vostra benedetta generazione non è che uno starnuto nell’eterno russare della Storia?

Quando la smetterai, almeno tu, di crederti così centrale; di sentirti in colpa ogni volta che un coglione che non conosci ribalta un cassonetto, di voler portare il mondo sulle spalle? Non è mai stato sulle vostre spalle. È un'altra cosa che vi raccontavate, per sentirvi grandi.
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Renzi e il Partito nella Nuvola

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Finché un bel momento si accorge che la polemica sulle regole gli è scappata di mano, e che averla trascinata fino a questo punto sarà controproducente anche per lui, sia che vinca sia che (più probabilmente) perda. Così a due giorni dal voto registra un messaggio pregando, "implorando" i suoi sostenitori di parlar d'altro, "di politica, del futuro del Paese". A parte rimarcare la faccia tosta, quasi ammirevole, di chi avendo esaurito i sassi da gettare s'ingegna all'ultimo momento a nascondere la mano, io vorrei qui provare a spiegare senza troppa polemica perché Renzi non può fare così: non può pretendere che i ragni non pizzichino, che le cicale non cicalino, che i suoi sostenitori non polemizzino sulle regole. La polemica sulle regole non è una cosa semplicemente strumentale, un trucco per attirare l'attenzione. La polemica sulle regole è ormai diventata il messaggio, e riflettendoci un poco non poteva che andare a finire così.

La rissa sulle giustificazioni scritte, sui certificati, sui documenti, non è un incidente che ci ha coinvolti per sbaglio. È il modo in cui si è espressa la vera identità del movimento renziano, che non è la bozza Ichino o la vocazione maggioritaria o la mano tesa agli elettori di centrodestra. Il renzismo è, prima di tutte queste cose, un movimento generazionale, che interpreta la frustrazione di una categoria abbastanza precisa di persone. Hanno quasi tutti meno di 45 anni; alcuni sono professionisti, altri sono precari, ma in ogni caso lavorano tutti. E sul luogo di lavoro si scontrano, tutti i giorni, con gli over 50: che mantengono posizioni di potere, che hanno sempre la maggioranza, che sono troppi, si autolegittimano ma spesso non sanno come si accende il tablet che hanno appena comprato, che non si rassegnano a essere rottamati. Lo zoccolo duro di Renzi è questo, e per quanto cerchi di allargarlo alla fine i suoi ultras sono fatti così; non è un caso il fatto che litighino sulle regole, che vivano la giustificazione scritta come un'umiliazione, che non capiscano come mai l'iscrizione ai registri non si può fare on line. Non è un dettaglio. È qui che passa il fronte della guerra generazionale: carta contro iPad, giustificazione scritta contro moduli on line, file nei seggi contro clic e tag, sedi di partito vecchia maniera contro social network: burocrazia contro internet.

Sono i quasi-nativi digitali. Fin qui internet è stato l'unico ambito che ha dato loro soddisfazioni e riconoscimenti: le rare volte che sono riusciti a convincere i colleghi a snellire una procedura passando dalla carta alla cloud, oppure quella volta che il direttore ha chiesto di loro per risistemare un sito o una banca dati. Internet è l'unico territorio amico, l'unico luogo in cui si sentono più sicuri dei loro avversari: è normale che cerchino di trasferire la battaglia lì, che a tre giorni dalla fine di tutto aprano un sito internet allo scopo di attingere a un enorme bacino di potenziali elettori di Renzi. Non ha importanza che questo bacino esista o no: ricorrere a internet è una reazione istintiva, un riflesso involontario: non c'è problema che la Nuvola non possa risolvere.

La carta, invece, è il nemico. Le code sono sempre lunghissime, estenuanti, retaggi di una civiltà analogica che dev'essere smantellata al più presto e sostituita da qualche software o app altri nomi a caso che ogni tanto effettivamente Renzi pronuncia. Il renzismo non è un'ideologia, è una frustrazione: noi siamo nel 2.0 e ci tocca prendere ordini da gente che va in crisi se la fotocopiatrice è in standby? E adesso cosa vogliono, la giustifica come a scuola? Dobbiamo scrivere? Su dei pezzi di carta?  Douglas Coupland si preoccupava che fosse la prima generazione senza Dio; per adesso questo più di tanto non si nota, almeno da noi; si nota più il fatto che sia stata la prima generazione a diventare adulta senza abituarsi a timbrare un cartellino. Mettersi in coda non è semplicemente una rottura: è umiliante.

Ne conosciamo tutti di tipi così. Per esempio io nel mio luogo di lavoro conosco un tizio che ha un problema col registro di carta: non riesce a gestirlo. Proprio non ce la fa, piuttosto di mettere i numerini con la penna nei quadratini si farebbe ore di riunioni, di lezioni, di qualunquecosa. Ce l'ha a morte con la Gelmini, con Profumo, con la Moratti, con tutti quelli che non gli hanno ancora dato il registro elettronico che a sentir lui sarebbe facilissimo da usare, praticamente si riempirebbe da solo. E in effetti lui ce l'ha già una specie di registro elettronico, se lo è fatto per i fatti suoi, lo ha messo nella Nuvola e ci si trova abbastanza bene, ma quello di carta non sa proprio più fisicamente come si riempie, è un'angoscia. Ecco, quel mio collega sotto sotto è un renziano - anche se su tutti i blog scrive in lungo e in largo il contrario.
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Guarda indietro con imbarazzo

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La mia generazione sarà tenuta prima o poi a render conto di un fatto paradossale e imbarazzante: avevamo una cosa, una cosa sola a cui tenevamo veramente, e l'abbiamo uccisa. Era la musica. Perché lo abbiamo fatto?

Sono cose di cui abbiamo discusso milioni di volte, però stavolta faccio lo sforzo di rivolgermi al futuro, un ipotetico futuro che dia per scontato che in Occidente tra il secondo dopoguerra e i '90 c'è stata un'importante fioritura artistica di questo genere che possiamo chiamare musica leggera - che si è interrotta più o meno nello stesso momento in cui la gente ha definitivamente smesso di comprare le canzoni, grazie al dilagare di tecnologie che consentivano di condividere la musica eludendo il mercato. Potrebbe anche trattarsi di una coincidenza, ma in quel futuro sono quasi sicuri che non lo sia: i soldi sono finiti più o meno quando è finita la creatività. Cosa possiamo dire a nostra discolpa?

Prima scusa: non lo sapevamo. Cioè, potevamo immaginarci che tra il mercato musicale e la creatività ci fosse qualche connessione (io me lo immaginavo almeno nel 2001, quando chiusero Napster), ma non ne eravamo proprio sicuri sicuri. Gli spagnoli non lo sapevano, che portando in Europa l'oro del Nuovo Mondo stavano facendo abbassare la quotazione del medesimo, e causando un generale aumento dei prezzi; pensavano: "ehi, il pane diventa ogni giorno più caro, che si fa? Andiamo a prendere altro oro in America, così risolviamo il problema". Forse ragionavamo così: ci lamentavamo che ogni anno ci fosse sempre meno roba buona, e intanto ne scaricavamo sempre di più. Questa scusa equivale più o meno a invocare l'insanità mentale, e quindi magari per il momento l'accantoniamo.

Seconda scusa: il sistema era tutt'altro che perfetto. Magari voi nel futuro pensate che fosse una cosa semplice: inserisci la monetina, e dall'altra parte c'è un artista che si guadagna l'autonomia per creare qualcosa di nuovo e piacevole. No. Gran parte delle monetine finivano nelle mani di chi produceva mangime industriale. Una piccola percentuale veniva effettivamente reinvestita in ricerca, e in questo modo a un certo punto il mercato riusciva ad accorgersi di artisti interessanti e a metterli a contratto, però tutto questo a noi non sembrava affatto perfetto, ed effettivamente non lo era. Cioè ma vi ricordate quanti soldi facevano i divi negli anni Ottanta? Ne facevano veramente troppi, e spesso sbroccavano. Noi di tutto il sistema vedevamo solo gli eccessi, e non ci piacevano. Non stavamo rubando musica ad artisti disperati sull'orlo del suicidio. All'inizio la stavamo rubando a scapestrati che non sapevano dove sbattere i soldi, e al loro indotto di puttane e pusher, vabbe', pazienza. C'era anche un certo moralismo nel nostro febbrile downloading. Li volevamo punire, perché guadagnavano troppo. C'era anche dell'invidia, certo, noi nel frattempo perdevamo potere d'acquisto - forse esagero, ma a me è capitato di vivere il boom di Napster e di ricevere la mia prima busta paga, orribilmente bassa, nelle stesse settimane, e mi è impossibile non collegare le due cose.

Terza scusa: voi non avete idea (voi del futuro, intendo) di cosa fosse il mondo in cui noi siamo nati e cresciuti, il Consumismo. Vi guardate le vostre clip degli anni Ottanta, tutte restaurate coi colori fluo al posto giusto, e pensate che doveva essere bellissimo consumare tutte quelle cose - ma tutte quelle maledette cose costavano, e noi dovevamo pagare, pagare sempre, sin da piccoli col PacMan, e le centolire non ci bastavano mai, noi forse ci salvammo dall'eroina perché avevamo già iniziato a ragionare da eroinomani a sette anni con le centolire per il PacMan, quando tutto quello che ci interessava veramente era un'altra manciata di centolire. E poi i vestiti, e i dischi, e i libri, e man mano si andava avanti si scoprivano sempre più mondi interessanti, ma non era come oggi: di ogni mondo ti facevano vedere soltanto uno spiraglio, un bagliore ammiccante, e se volevi entrare anche solo a fare un giro dovevi pagare. Per dire: hai notato quel mezzo vecchio video di David Bowie? Interessante, vero? Ti interessa sapere che dischi faceva dieci anni fa? Paga. Sai quanti ne ha fatti? Comincia a mettere da parte i soldi, e prega di trovarne qualcuno a metà prezzo, o uno zio che te ne presti. Magari qualcuno è brutto e non vale la spesa, ma come fare a saperlo? Da qualche parte ci dev'essere anche un libro che ti orienta. Paga. E avresti sempre dovuto pagare, e tutta la cultura che avresti ammucchiato l'avresti conteggiata in multipli di centolire.

Voi che adesso giudicate, voi potete giocare a Pacman gratis dal gabinetto di casa vostra per ore, finché non vi si marmorizza il culo - ma probabilmente Pacman smette di essere interessante nel momento in cui dal destino del mangia-fantasmini non dipende nemmeno un centolire. In pochi minuti vi potete scaricare la discografia completa di Bowie, che non ascolterete mai: chi ce l'ha il tempo e l'attenzione per una discografia completa? Poco importa, su Wiki in pochi clic potrete sapere cosa vi conviene ascoltare e cosa no. Non scoprirete mai nulla che non sappia già il più stupido contribuente alla pagina wiki su Bowie, ma probabilmente il concetto di scoperta personale vi è alieno tanto quanto l'arcana iscrizione INSERT COIN.

Ecco, voi non potete capire che importanza avesse in quegli anni condividere, registrare, duplicare, masterizzare, prestare, non restituire, e poi finalmente scaricare. Era la lotta al Consumismo. Era la resistenza umana. Era l'unico modo per imparare qualcosa in più, perché il mondo era già vastissimo e complicatissimo, e le centolire per accumulare conoscenza non sarebbero bastate mai.

Quarta scusa: eravamo tirchi. Io, almeno, tirchissimo: non per inclinazione, ma per ideologia. Questa magari ve la racconto un'altra volta.
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Fuori le pale!

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La neve divide gli uomini in due categorie: chi tira fuori la digitale e chi tira fuori le pale.


Ed è questo il vero problema con la mia generazione, altro che Renzi. Il pezzo in cui si compie la mia mutazione definitiva in accigliato umarell si legge sull'Unita.it (H1t#111). Buon disgelo.

A questo punto probabilmente ne avete abbastanza della neve sui giornali, delle foto di neve degli amici su facebook, della neve in generale, e vi capisco. Racconto solo la mia storia, sperando che abbia un senso anche per voi.
Mercoledì avevo messo la sveglia presto, perché volevo spalarne il più possibile finché era leggera. Non è che temessi di restare bloccato nella banchisa, ma volevo evitare che il più del lavoro lo facesse il signore del piano terra, che si sveglia presto, ma non dovrebbe fare sforzi alla sua età. Poi purtroppo la Creatura aveva altri progetti, e insomma mi è rimasta soltanto una mezz’ora per farmi strada verso il cancello e spazzare il mio pezzo di marciapiede. A un certo punto, mentre spalavo, è arrivata la signora del piano terra a scusarsi del fatto che non fosse uscito suo marito, che purtroppo era febbricitante. Le ho risposto che non c’era problema, che io avrei fatto quel che potevo prima di andare a scuola, e che si riguardasse, ché anche mio padre era a letto con la febbre. Però la signora era uscita con la pala del marito (grossa il doppio della mia), e ci teneva a darmi una mano. Abbiamo pulito il nostro marciapiede, e anche quello della vicina anziana, che ha una badante simpatica che spazza sempre le foglie anche per noi. La mia è una città minuscola dove le foglie cadono tutto l’anno, tranne quando nevica.
Tutto intorno strade e marciapiedi erano in uno stato disastroso, ma d’altro canto aveva fioccato tutta la notte, non si poteva pretendere. In un qualche modo ho raggiunto la scuola: verso la fine delle lezioni il bidello è venuto ad avvisarci che la scuola avrebbe chiuso per due giorni. Nel giubilo generale, ho raddoppiato i compiti e ho ricordato a tutti di aiutare i genitori con le faccende, anche spalando il cortile se necessario. Poi sono tornato a casa anch’io. La strada era ancora una lastra di ghiaccio, ma non mi stupiva. Il Comune fa quel che può. A sorprendermi sono stati i marciapiedi: quasi tutti avevano ancora le orme che ci avevo lasciato al mattino. Ho dovuto camminare sulla rotta incerta delle automobili, finché non ho trovato l’unico marciapiede un po’ decente, che era quello che avevo spazzato io (ho scoperto poi che la badante della mia vicina aveva dato una ripassata). Ho pensato che in fondo erano passate poche ore, e la maggior parte dei bravi cittadini non aveva semplicemente avuto il tempo di spalare: erano al lavoro, o bloccati nel traffico da qualche parte. Sono salito, ho dato un’occhiata a internet. Foto di neve un po’ dappertutto.
Internet è l’unico vero contatto che conservo con la gente della mia età. Al lavoro ho a che fare con preadolescenti e con colleghi un po’ più avanti con gli anni (tranne i precari che di solito hanno fretta). Su internet invece sapete come va, uno anche se non vuole finisce per trovarsi le compagnie che merita. Le persone che trovo sui social network fanno parte della mia generazione. La generazione che mercoledì avrebbe dovuto prendere la pala e pulire almeno il marciapiede, un lavoretto di mezz’ora: invece stavano pubblicando le foto su Instagram. Non è che voglio fare del moralismo, anche se mi viene spontaneo. Però dopo due giorni di bufera, stasera, guardando i marciapiedi intorno al mio ancora coperti da quella che ormai è una lastra di ghiaccio dura, pericolosa per i bambini e per gli anziani… mi è venuta rabbia, certo, per aver sudato inutilmente: a cosa serve un marciapiede pulito in un angolo, se prima e dopo il ghiaccio invade tutto? Ma sotto la rabbia c’è il panico. Fino a qualche anno fa sapevo che ai marciapiedi ci avrebbe sempre pensato qualche pensionato che non chiedeva meglio che mostrarsi utile. Quella generazione ormai si vede che non ce la fa più, è a letto con la febbre e ne ha il diritto: e noi?
La mia generazione, quella che chiede a gran voce di ereditare il mondo e per carità, giustamente, di fronte alle banali difficoltà di una bufera di neve, reagisce come se fosse di nuovo l’Ottantasei: andiamo a giocare e a farci le foto. Io a dire il vero l’Ottantasei me lo ricordo proprio perché per la prima volta i miei mi diedero una pala in mano: niente di speciale, forse una mezz’ora, e poi facemmo anche noi il pupazzo di neve: però ricordo meglio la pala, era il segno tangibile (e pesante) che stavo crescendo, e che ci si aspettava che facessi anch’io qualcosa.
Poi magari mi sto rincoglionendo: magari è un problema della mia città minuscola, o del mio quartiere, magari a due isolati da qui c’è una strada coi marciapiedi perfetti, puliti da trentenni responsabili. Magari avrei dovuto scrivere un pezzo su Monti, o su Renzi. Volevo però spiegare che la mia sfiducia nei confronti dei miei coetanei non ha a che vedere con Renzi. È una cosa che mi viene da più lontano, e si nutre di tante delusioni quotidiane, come uscire di casa e trovare il ghiaccio sui marciapiedi. Qualcuno si farà male. Daranno la colpa al Comune. http://leonardo.blogspot.com
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Il vuoto incolmabile

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Come forse qualcuno avrà notato, da alcuni giorni a questa parte il Partito Democratico, il suo vertice, i suoi militanti, stanno in qualche modo cercando di sopravvivere alla notizia della defezione di Mario Adinolfi.


Lui nel frattempo gioca a carte. Sull'Unità.it comunque c'è un tentativo di prendere Adinolfi un po' sul serio (H1t#93), giusto per non lasciare nulla d'intentato. Si commenta laggiù.

(Ci si vede forse a Riva stasera).

Ma insomma perché nessuno vuole prendere sul serio Mario Adinolfi che abbandona il PD? Forse ha ragione il direttore di Europa Menichini, che dietro alle ironie e alle battutine sulla stazza e sul peso del personaggio intravede una certaarroganza togliattiana. Oggi stavo quindi cercando di rispondere alle critiche di Adinolfi nel modo meno togliattiano possibile, entrando nel merito delle importanti questioni sollevate eccetera, quando su twitter è arrivato un messaggio del Mario:

giornate di novità: ho firmato per i miei nuovi colori pokeristici, esordio all'Ept di Londra con il TeamPro1128

Allora, mettetevi anche un po' nei panni di noi togliattiani. Non siamo mai veramente riusciti a digerire la barca a vela di D'Alema (né l'appartamento newyorkese di Veltroni): cosa potevamo pensare di un giornalista che conciliava la militanza attiva in un partito di sinistra con l'esercizio professionale del gioco d'azzardo? Saremo provinciali, saremo vecchi, ma quando Adinolfi nel suo blog alternava i consigli al segretario sulla linea del PD con quelli ai lettori sulle squadre su cui scommettere, a noi cedevano un po' le ginocchia.

È sempre stato oggettivamente difficile prendere sul serio Adinolfi. Per prima cosa è una persona obesa, e noi a sinistra, sempre pronti a schizzare in piedi di indignazione alla prima barzelletta omofoba e sessista, non abbiamo nessuna difficoltà a ridere degli obesi (“ciccioni”) e dei bassi di statura (“nanetti”): Berlusconi e Ferrara ci hanno allenato bene, in questo senso. Poi è stato militante democristiano e non se ne è mai vergognato, e questo è parecchio destabilizzante. Aggiungi questa cosa del poker e delle scommesse che avrebbe destabilizzato anche i democristiani. Infine, nel momento in cui tutti i politici di sinistra cercavano di presentarsi all'elettorato nel modo più rassicurante e grigio possibile, Adinolfi non ha mai pensato di nascondere una personalità eccentrica e debordante. Nonché una mania di protagonismo che, se in parte era giustificata dalla necessità di restare a galla nel mondo difficile e competitivo dell'infotainment radiotelevisivo, dall'altra spiega il perché le non-dimissioni di Adinolfi (non ricopriva nessun incarico) siano quasi una non-notizia, che in linea teorica non avrebbe meritato più spazio di quella di un volontario della festa dell'unità di Reggio Emilia che oggi decidesse di stracciare la tessera. Certo, è pur vero che nessun volontario reggiano della festa dell'Unità si è mai presentato alle primarie del PD, ma probabilmente se lo avesse fatto avrebbe raccolto più voti di Mario Adinolfi. Quindi, insomma, di che stiamo parlando?

Stiamo parlando di un quarantenne che, a furia di accreditarsi come rappresentante di una generazione, in qualche modo è riuscito a impersonarne almeno alcuni difetti: Adinolfi, che pure è uscito di casa abbastanza presto e ha sempre in qualche modo lavorato, sembra morso dallo stesso demone di tanti trenta-quarantenni italiani che il precariato lo hanno interiorizzato, fino ad elevarlo, in mancanza di meglio, a filosofia di vita: e dopo un decennio passato a corteggiare diverse carriere, senza sceglierne veramente nessuna, si ritrovano a quarant'anni bloccati a un bivio, consapevoli che scegliere una via, una carriera, un mestiere, una vita, significa rinunciare ad altre vie, ad altri mestieri, altre vite. Per carità, qui non si giudica nessuno, ma posso dire che nel continuo saltabeccare di Adinolfi tra editoria politica e gioco d'azzardo un po' mi riconosco (in sedicesimo, diciamo). E in fondo sono contento che lui abbia saputo finalmente scegliere: e anche che non abbia scelto la politica, per la quale, non me ne voglia, forse non era troppo tagliato.

Anche la sua difficoltà a integrarsi nel PD si può leggere in modo generazionale. Un altro problema di noi trenta-quarantenni è che ci siamo sposati tardi, dopo fidanzamenti esageratamente lunghi. Allo stesso modo, dopo aver inseguito per anni il miraggio del grande partito di centrosinistra, quando finalmente l'impossibile si è avverato, Adinolfi ha scoperto sulla sua pelle i dolori e i fastidi della convivenza. Il motivo per cui oggi decide di divorziare è in fondo molto semplice: dalle ultime primarie in poi, Adinolfi si è ritrovato in una corrente di minoranza, e questo gli è insopportabile. È il paradosso per cui proprio gli alfieri del Grande Partito sono quelli che appena un partito abbastanza grandino prende forma non riescono ad accettare gli oneri che esso comporta: l'inevitabile nascita delle correnti, la dialettica interna tra maggioranza e minoranze, il triste centralismo democratico: tutte cose che l'ex democristiano Adinolfi dovrebbe conoscere bene – non ci fossero stati quei vent'anni di caos tra popolari, asinelli, margherite, ulivi, unioni, con tutte quelle intercapedini e quei margini di azione per capitani coraggiosi e un po' spavaldi. Ora il tempo dei corsari è finito: bisognerebbe indossare la giacca e la cravatta dell'uomo d'ordine, ma in quella giacca Adinolfi proprio non ci sta (e questa è l'unica battuta sulla sua taglia che farò, già una di troppo).

A proposito di partitini è buffo che Adinolfi ricordi di aver cercato il “coinvolgimento organico” di radicali e socialisti, oltre a Grillo, che avrebbe voluto candidato alle primarie. Ora, se c'è qualcosa che radicali, socialisti e Grillo hanno in comune, è di non avere mai realmente creduto nel PD, anche quando hanno cercato di usarlo per ottenere un po' di visibilità (il tentativo di Grillo di candidarsi) o per arrivare in Parlamento eludendo gli sbarramenti (la “delegazione radicale”, quei nove posti blindati ottenuti dal PD di Veltroni, la cui lealtà è ben provata dall'assenza di ieri alla Camera, e dalle dichiarazioni di Pannella). Quanto ai socialisti, parliamo di quel partito inesistente che negli ultimi dieci anni ha sempre fatto perdere punti in percentuale a qualsiasi lista con cui si è aggregato (memorabili le batoste di Rosa nel Pugno e Girasole)? Eppure Adinolfi dovrebbe sapere che i socialisti a centrosinistra non hanno mai trovato la porta chiusa, da Occhetto a D'Alema (che fece entrare almeno Amato) fino a quando Boselli, segretario di un partito da prefisso telefonico, fu invitato da Prodi alla costituente del PD e rifiutò sdegnosamente quello che definì il “compromesso storico bonsai”. Poi andò alle urne da solo e riprese il suo zero virgola per cento. Certo, esistono tante cose nell'universo; esistono i neutrini che hanno così poca massa che possono arrivare dal Gran Sasso a Ginevra senza tunnel; così può darsi anche che esista ancora un partito in Italia che si chiama socialista. Ma anche un bonsai non è che debba preoccuparsi di coinvolgere tutti i batteri che transitano nei pressi: la maggior parte sono innocui.

C'è poi la questione "omosex", come la chiama lui, che negli ultimi mesi è diventata una sua piccola ossessione - proprio mentre la passione per la militanza nel PD rapidamente scemava. Non è una coincidenza. Sui diritti civili dei gay ho una teoria: c'è un motivo per cui qualcuno ne parla oggi, quando in Italia governa la destra più becera e omofoba e nessuna reale messa in discussione dello status quo è praticabile. Ed è un motivo che purtroppo ha ben poco a che fare coi gay, e molto a che fare con la storia del PD, e la sua doppia anima catto-diessina. In sostanza si riparla di gay, e soprattutto di matrimoni di gay e di adozioni di gay, semplicemente perché di tutti gli argomenti al mondo è quello più pericoloso per la coesione del PD: quello che davvero rischia di farne cedere le giunture, tanta è la distanza tra le posizioni di cattolici e progressisti. Ora io sarò anche un togliattiano dentro: me lo hanno detto anche i miei quattro lettori, quindi c'è del vero. Però per me proporre un “referendum sul matrimonio omosex”, come Adinolfi dice di aver fatto, equivale a dichiarare di aver tentato di sventrare il PD, proprio nel punto dove la cucitura è più fragile. Solo così si spiega poi l'ossessione per questo argomento in un'estate in cui anche molti gay, più che al matrimonio, probabilmente pensavano ai loro risparmi, all'IVA e alle pensioni.

Già, le pensioni. Ad Adinolfi non è piaciuta l'adesione allo sciopero della CGIL, il sindacato dei pensionati eccetera. Non è una sorpresa che l'eterno precario della politica si trovi più vicino alle posizioni di Ichino: quanto agli ammortizzatori sociali, lui ha sempre rivendicato di trovare meno rischiose le ricevitorie delle banche, e a questo punto la cosa terribile è che non sembra avere tutti i torti. Ma insomma la posizione di Adinolfi la conosciamo da anni: i nostri padri pensionati ci rubano il futuro. Nel frattempo però (dovrebbe essersene accorto) cominciamo ad andare anche noi per la quarantina, e alla pensione iniziamo a pensarci, se non altro perché l'idea di ottenerla a ottant'anni un po' ci spaventa. Forse per Adinolfi il problema non si pone, forse sarà ancora un brillante bluffatore, o forse avrà già raggranellato abbastanza col suo personalissimo sistema integrativo. Noi però non siamo altrettanto capaci, né al tavolo verde né alla vita in generale. Così ci attacchiamo a quel che possiamo: un mestiere piuttosto che un altro, un sindacato piuttosto che un altro, un partito con tanti difetti ma che è meno peggio di tanti altri, eccetera. Nel frattempo Marione se n'è andato verso altre partite, altre sfide, altre avventure. Ci perdonerà se non siamo abbastanza togliattiani da non invidiarlo un po'. http://leonardo.blogspot.com
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Mi è tuttora oscuro il perché

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[Dieci anni fa Beppe Grillo andava in giro per i palazzetti a spaccare i computer col martello. La gente non voleva leggere sul video, stampava qualsiasi cazzata. Meno male che i blog ancora non esistevano, tranne questo. Per festeggiare dieci anni di obsolescenza, leonardo.blogspot.com pubblica dieci vecchi pezzi che parlano di passato e di futuro. Questo è del novembre 2003. Ci ho messo anni a ritrovare il volantino originale].

Trova l’errore

In questa foto c’è un grave errore. Riesci a trovarlo?

(Clicca qui per ingrandire).

È la pubblicità di un concorso indetto dal Ministro dell’Istruzione e dall’Inail, per “l’assegnazione di n. 200 borse di studio agli studenti degli Istituti Tecnici e Professionali […], che presentino progetti in tema di sicurezza e salute negli ambienti di vita, di studio e di lavoro”.

Lodevole iniziativa. Ma – come ogni pubblicità – è anche un lapsus collettivo. Ci passiamo davanti e non ce ne accorgiamo. Ma fingiamo un momento di venire da Marte, e di trovarci davanti un volantino così. Chi sono questi cinque umanoidi? Perché il più anziano è incellofanato? Stiamo forse assistendo a una cerimonia di imbalsamazione rituale? Cosa sta osservando l’altro personaggio anziano? Perché l’umanoide femmina sorride?

No, è difficile capirci qualcosa, da marziani. Reincarniamoci allora in un critico marxista del Novecento. Mmm. Che strano quadretto. Il professore, icona della borghesia improduttiva, lo riconosciamo senza problemi (veste più o meno allo stesso modo da quarant’anni); ma perché il ragazzo alla nostra sinistra veste indumenti di tre taglie più larghi, inadatti a qualsiasi funzione produttiva? E perché hanno travestito un signore anziano da operaio? E perché la ragazza veste più o meno allo stesso modo, ma ha le spalle nude? E ancora, cosa ci trova da ridere?

E adesso torniamo in noi. Forse, rispetto ai marziani e ai marxisti sappiamo qualcosa di più sulla moda degli anni Novanta: ma ne sappiamo davvero molto di più su di noi? Sulla nostra idea del lavoro? La foto non ci lascia dubbi: oggi la nostra immagine di “operaio medio” è quella di un signore di cinquant’anni e qualcosa, brizzolato. Bisogna fingersi un attimo marziani per ricordarsi che non è necessariamente così: un tempo nessuno avrebbe pensato a un signore di sessant’anni in un cantiere. Soprattutto mentre quelli che potrebbero essere i suoi nipoti vestono casual e presentano progetti al Ministero.

Ma allora forse aveva ragione il marziano: questa è un’imbalsamazione rituale. È il vecchio Lavoro che si seppellisce qui, incellofanato perché non si guasti ulteriormente. Quello che aveva fondato la Repubblica e il boom economico, quello che ora si meriterebbe la pensione, ma deve tener duro: sempre lui. Quel signore che nei prossimi anni continuerà a lavorare, incentivato dal Governo, anche se con qualche acciacco in più: ma anche i suoi acciacchi possono far girare un po’ di economia. Gli disegneremo un casco nuovo, scarpe più robuste e antinfortunistiche, protesi in titanio, indistruttibili, e poi via, finché c’è vita c’è lavoro.

E poi, quando non ci sarà più lavoro per lui, non ce ne sarà più per nessuno. O meglio: ce ne sarà ancora, perché è impossibile che tutto il lavoro scompaia nel nulla: ma sarà invisibile, non protetto. Avrà facce scure e poco rassicuranti. Ma nel nostro cuore resterà sempre un bel signore serio e brizzolato. Nostro padre. Dopo di lui, il diluvio.

Dopo di lui, il terziario. I servizi. I progetti. Le borse di studio. E gli eterni professori che studiano, con la solita giacca e il solito farfallino. Loro non hanno bisogno di cellophane: tra quarant’anni probabilmente saranno ancora uguali. Ma i tre ragazzi? Cosa faranno dopo la borsa di studio? Altri progetti, altre borse, altri servizi. E poi? E poi non si sa. Non diventeranno operai, questo è sicuro. C’è una grande, inconsapevole ironia, nella mise della ragazza. La canottiera riprende le forme della tuta blu: e la spalla, abbronzata, non sembra affatto inetta al lavoro fisico. Le borchie della cintura (che non tiene su i pantaloni) i tasconi delle braghe (dentro c’è un cellulare): tutte irriconoscibili citazioni del mondo del lavoro. Tutti oggetti il cui valore d’uso si è riconvertito in valore di moda. La ragazza veste come un operaio, e non lo sa.

O forse lo sa, perché le ragazze sanno sempre più cose di quante immaginiamo. Tiene in piedi il passato (sembra lo accarezzi quasi), guarda verso il futuro, e sorride. Non mi è chiaro il perché.
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The Plot Against Magic Italy

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E comunque volevo dire che, wikileaks o non wikileaks, per me Frattini ha ragione. Cioè non è possibile che stia andando tutto in vacca così senza un senso. Ci vuole un senso, e quindi ci vuole un complotto. Insomma secondo me il complotto c'è. E ho anche un'idea di chi stia complottando.
Di sicuro è gente anziana. Il complotto dei vecchietti è sull'Unità.it, e si commenta qui. (Stanno rinnovando il sito, portate pazienza).

E se il ministro Frattini avesse ragione? Se davvero esistessero "strategie dirette a colpire l'immagine dell'Italia sulla scena internazionale", cioè in pratica un complotto? È davvero così paranoico mettere in collegamento i crolli di Pompei, la crisi dei rifiuti, Finmeccanica che perde una commessa, e le altre figuracce che nelle prossime ore Wikileaks pubblicherà?

Ora, nella migliore tradizione della letteratura paranoica, facciamo un passo indietro. Qualche sera fa, mentre gli studenti cominciavano a scendere in piazza, in un ristorante di Milano due vecchietti si prendevano a botte. La notizia, succosa in sé (cosa ci fanno due settantenni, a mezzanotte, in un locale alla moda? Perché non se ne stanno tranquilli al caldo nelle loro case, magari circondati dagli affetti dei loro cari?) è passata quasi inosservata, occultata dalle generalità dei due personaggi. Uno dei due signori era Gian Germano Giuliani, produttore di un famoso amaro digestivo; l'altro, Emilio Fede, uno dei più dileggiati e sottovalutati uomini chiave di Berlusconi: il suo Ministro per la Terza Età, imbonitore di un favoloso parco buoi elettorale che può ancora fargli vincere le elezioni in barba a qualsiasi scandalo o contestazione.

È difficile perfino accorgersi che si tratta, in effetti, di due persone anziane. Giuliani è fresco di terze nozze, e terza separazione; Fede, l'aggredito, poche ore dopo era già davanti alle telecamere, coi lividi imbellettati, instancabile, a chiedere alla polizia di menare "la gentaglia", gli studenti "che capiscono solo di esser menati", i "poveri cuccioloni" che hanno osato violare il Senato, l'assemblea degli anziani intoccabili.

La vitalità di questi personaggi ha qualcosa di stupefacente. Non c'è dubbio che entrambi abbiano fatto cose importanti per l'Italia e gli italiani. Il primo negli anni Settanta vendeva a casalinghe e pensionati sostanze alcoliche sotto forma di prodotti medicinali; allo stesso pubblico, un po' più incanutito, Fede ha smerciato per anni un varietà propagandistico sotto forma di telegiornale. Tutto questo comunque andrebbe scritto su un libro di Storia, nelle ultime pagine riguardanti il secolo scorso. E invece questi e altri settantenni sono ancora qui, nelle prime pagine dei quotidiani del 2010, a reclamare il loro diritto a innamorarsi e fare a pugni. Esponenti di una classe di ferro che non ha nessuna voglia di mollare le redini del Paese. Ma questo cosa c'entra col complotto denunciato da Frattini?

Nulla. Sono solo paranoie. Eppure... se uno prova a unire i puntini, si rende conto che le recenti disgrazie colpiscono un aspetto specifico del nostro Paese: il futuro. Quello dell'Italia, in fin dei conti, non è difficile da prevedere. Le coordinate le abbiamo: siamo una nazione piccola, con una grande Storia, in un mercato globale ormai aperto agli enormi serbatoi asiatici di manodopera a buon mercato. Per restare competitivi non possiamo che investire sulla ricerca, sull'innovazione, sull'istruzione. È una scelta obbligata, gli stessi imprenditori non fanno che ripeterlo. E proprio mentre continuiamo a ripetercelo, scuola e università crollano; il dicastero è occupato da personaggi di dubbia competenza, che elaborano fantasiose riforme che nascondono (neanche troppo bene) una realtà fatta di tagli all'osso.

L'altro investimento obbligato è quello sul carattere specifico dell'Italia: anche nel mezzo di una crisi come questa, il Bel Paese rimane apprezzato nel mondo per il suo patrimonio naturale e culturale. E qui si dovrebbe intervenire: salvando il salvabile, eliminando senza pietà gli eco-mostri, investendo pesantemente nel turismo. Magari anche nel cinema, che negli anni del boom ci rese un grandissimo servigio, diffondendo in tutto il mondo il sogno di una Dolce Vita che a ben vedere era ancora un sogno anche per noi. Dovremmo offrire a miliardi di potenziali turisti la forza di sogni nuovi... Sì, sono considerazioni perfino banali. E mentre le facciamo, il patrimonio è affidato a personaggi di conclamata incompetenza; siti archeologici unici al mondo giacciono in abbandono; il meridione, che potrebbe essere la nostra Mecca, qualcosa che ogni cittadino del mondo dovrebbe sentirsi obbligato a visitare, è stato convertito in discarica dalla malavita organizzata. In mezzo a tutto questo, il ministro dell'Economia dà le mazzate finali al settore affermando che con la cultura non si mangia. Possibile che tutto questo avvenga per caso? È davvero così azzardato ipotizzare un complotto?

Io non so che volti hanno gli uomini che, tra una cena e l'altra, complottano contro l'Italia e il suo futuro. L'unica teoria che mi sento di fare riguarda la loro età. Sono vecchi. Un po' più anziani di quella Repubblica che hanno offeso e depredato senza nessun timor reverenziale. Hanno vissuto alla grande gli anni del boom, hanno finanziato le loro avventure ipotecando il futuro di figli e nipoti. Oggi, nel mezzo di una crisi mondiale, vivono gli ultimi fuochi senza progetti a lungo termine - e perché dovrebbero averli? Ancora un'altra donna, un'altra barzelletta, un'altra bella serata al ristorante. Di accompagnarci al disastro non hanno nessuno scrupolo: sono i primi a sapere che se ne andranno prima. http://leonardo.blogspot.com
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Se i bimbominkia sapessero

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Neologismi da salvare (3): bimbominkia

If your parents knew how lame you really were, they would murder in your sleep. (Zappa, Freak out!)

Non c'è alcun bisogno di salvarlo, in effetti: bimbominkia (pl. bimbiminkia) si sta difendendo benissimo da solo. Nato nelle zone più frequentate dagli italiani nel web (msn?) il termine di recente è approdato in tv, e a questo punto ha davvero buone possibilità di sopravvivere nell'uso comune.

Bimbominchia, grosso modo, è un termine spregiativo che indica una persona giovane che occupa il suo posto nella rete (o nel mondo) in modo colpevolmente ingenuo. Spia rilevatrice del bimbominchia è lo sfoggio di k e di abbreviazioni difficili da interpretare. Un altro elemento che espone il bimbominchia al pubblico ludibrio è la sua devozione sconfinata e totalmente acritica nei confronti di tutto ciò che gli piace: la saga fantasy del momento, il cantante in età prepubere, eccetera. Un bimbominchia ad esempio non può limitarsi ad apprezzare Twilight: dovrà adorarlo, andare in crisi di astinenza, cercare succedanei; passare notti all'addiaccio per mettere le mani sul primo volume o sul primo biglietto del cinema di Twilight, trascorrere pomeriggi a difendere disperatamente il buon nome dell'autrice di Twilight in un forum dove la massacrano. Così bimbominchia viene a occupare un campo semantico prossimo a quello dell'inglese “fanboy”: è una parola insomma di cui c'era un effettivo bisogno. Tutto questo lo sapevate già.

Quello che magari non vi era ancora venuto in mente (anche io ci ho messo un po' a capirlo) è il modo in cui il neologismo 'bimbominkia' fotografa il collasso della piramide delle età in Italia. Eh? Daccapo.

Bimbominchia è un dispregiativo gergale, fin qui ci siamo. Nulla di eccezionale. Tutte le generazioni hanno coniato i loro dispregiativi gergali. Di solito nascevano in ambito giovanile e venivano adoperati per bollare gli adulti. Un esempio da manuale (anche per il suo sapore vintage: impossibile usarlo oggi senza autoironia) è “matusa”. I matusa (troncamento di Matusalemme, personaggio biblico dalla venerandissima età) in Lombardia occidentale, erano gli adulti che non capivano i giovani con i blue jeans. In un momento storico in cui i giovani erano all'avanguardia dei consumi, era naturale che fossero anche all'avanguardia nella sperimentazione linguistica.

Quarant'anni dopo, il termine “bimbominkia” si trova in una situazione speculare a quella di “matusa”. I bimbiminchia sono i giovani: a chiamarli così, a inventare il termine, sono stati i meno giovani (diciamo trenta-e-qualcosa). Il peccato originale del “matusa” era l'esser cresciuto, il non saper apprezzare twist e rocchenrol e la rilassatezza dei costumi. Il peccato originale del bimbominchia è l'esser bimbo: non riuscire a scrivere in modo corretto, non padroneggiare il t9 o le dinamiche dei forum, apprezzare libri da preadolescenti. Ma davvero possiamo fargliene una colpa?

Sì, possiamo, perché da vent'anni a questa parte la piramide delle età in Italia si è rovesciata, e oggi i giovani sono minoranza. E, quel che più conta, non sono più all'avanguardia nei consumi: non scoprono più trend, di solito riciclano quelli dei fratelli maggiori o addirittura dei padri. A voltar loro le spalle è addirittura la tv, che nelle fasce orarie una volta dedicate a loro continua a riprogrammare vecchi cartoni animati che i genitori sanno a memoria. Sono circondati da gente che ne sa più di loro e li sfotte. Noi non eravamo così.

La sfiga di essere preadolescente negli anni Dieci: nessuno vuole venderti nulla di più strutturato di un braccialetto in plastica. I CD ormai li comprano solo i vecchi sbabbioni – ai bimbominchia al massimo riesci a piazzare una suoneria, ed è tutto. Se vuoi appassionarti a Lady Gaga, puoi farlo, ma non è come Madonna Ciccone, che alienava completamente tua madre tredicenne dai gusti dei suoi genitori. Una tredicenne di oggi che si accosta a Lady Gaga si trova davanti a riferimenti culturali che sua madre capirà meglio di lei. In effetti stiamo rivendendo gli anni Ottanta in frullati omogeneizzati, sperando che i nostri figli non abbiano bisogno di nient'altro. Poi vengono su un po' fessi e li sfottiamo, ma è un modo per sentirci ancora padroni della situazione. In realtà i bimbominchia sono la generazione meno coccolata dalla fine del dopoguerra. Il modo in cui i media si sono fregati di loro sta tutto in queste due parole: Tokio Hotel. Una banda di preadolescenti tedeschi, praticamente un fondo di magazzino: per tre anni MTV Italia non ha avuto niente di meglio da offrire.

Se i bimbominkia sapessero come li abbiamo presi in giro, ci soffocherebbero nel sonno.
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Gli uomini prima del diluvio

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Potete immaginare di vivere cinque anni senza di lui?
(Sì). (In effetti non sapete manco chi sia). (Ecco, appunto).
Altri dettagli in Ho una teoria #10, sull'Unita.it (dove temo che i commenti non funzionino).

"Qualche cosa può essere sfuggita", dice Bertolaso. Potremmo fare il piccolo sforzo di credergli, perché no? Dal 2008 in qui il capo della Protezione Civile è stato sottosegretario all’emergenza rifiuti in Campania; commissario dell’area archeologica romana; e ancora commissario straordinario per il terremoto dell’Abruzzo (con annesso vertice g8), per le eruzioni nelle Eolie, per le aree marittime di Lampedusa, per la bonifica del relitto della Haven, per il rischio bionucleare, per i mondiali di ciclismo e per qualcos'altro che mi sarà senza dubbio sfuggito... In mezzo a tanti impegni un cantiere alla Maddalena potrebbe effettivamente essere passato inosservato: ma anche sforzandoci di credere alla sua buona fede, come possiamo giudicare un sistema che considerava qualsiasi evento importante un’emergenza (i mondiali di ciclismo...) e ogni emergenza degna dell'intervento di un singolo uomo? Non c’era in Italia un’altra persona preparata in grado di gestire almeno un’emergenza su cinque, qualcuno che potesse gestire con più attenzione i cantieri della Maddalena mentre Bertolaso volava in Abruzzo a soccorrere i terremotati?

Ho una teoria: Bertolaso – che non nasce berlusconiano – è rimasto suo malgrado intrappolato nella categoria berlusconiana degli “uomini del fare”. Vere e proprie incarnazioni della Provvidenza, gli Uomini del Fare risolvono i problemi da soli, in poche mosse. Moderno Cesare, l'Uomo del Fare viene, vede, vince, e vola a farsi un massaggio antistress. Stress che si lascia facilmente spiegare: gli Uomini del Fare non lo dicono, ma devono essere circondati da incompetenti a cui non potrebbero cedere nemmeno un decimo delle loro responsabilità, senza correre il rischio che tutto il loro lavoro crolli come un castello di carte. Dopo gli Uomini del Fare c’è sempre il diluvio.

Prendiamo la Lombardia. La più popolosa regione d’Italia, saldamente in mano a una classe dirigente di centrodestra che negli ultimi quindici anni dovrebbe avere espresso e cresciuto numerosi validi amministratori… e invece no, pare che l’unico in grado di mandare avanti la regione, da quindici anni a questa parte, sia Roberto Formigoni. Dopo aver surclassato il record di Franklin Delano Roosvelt (appena dodici anni alla Casa Bianca), il governatore lombardo punta ora a completare il ventennio, un primato senza molti precedenti nelle democrazie moderne (persino in una democrazia sui generis come la Federazione Russa, dopo otto anni di presidenza Putin si è dovuto trovare un altro incarico). Certo, dietro Formigoni c’è un compatto blocco di potere.. Ma sarebbe nell’interesse di qualsiasi blocco di potere rinnovare i propri uomini ogni tanto: giusto per non dare l’impressione che dopo Formigoni ci sia il diluvio. Tanto più che una sua eventuale rielezione rischia di risultare illegale: la legge 165 del 2004 vieta esplicitamente la rielezione dei presidenti delle regioni dopo due mandati consecutivi (quello di Formigoni sarebbe il quarto). Ne ha scritto di recente, sulle colonne dell’Unità, il professore di diritto costituzionale Vittorio Angiolini. L’ineleggibilità di Formigoni, già lungamente dibattuta in rete (tra i primi a parlarne Luca Sofri e Giuseppe Civati nei rispettivi blog) non ha forse ancora avuto sui quotidiani la visibilità che meriterebbe. Gli stessi avversari di Formigoni esitano a sollevare la questione.

Non è difficile capire perché: basta attraversare il Po per trovare un’altra grande regione (l’Emilia-Romagna) governata da un Uomo del Fare (Vasco Errani, PD) che gareggia per il suo terzo mandato. Una sua vittoria (probabile) non sarebbe meno illegale di quella di Formigoni a Milano. Ma il caso di Errani è, se possibile, più preoccupante, perché dimostra che la categoria degli Uomini del Fare sta penetrando anche nelle regioni storicamente di sinistra (per carità non chiamiamole più “rosse”). Ma davvero l’elettore emiliano di sinistra è così incline al culto della personalità? In realtà finora ha dimostrato il contrario, confermando al governo della regione e di tante amministrazioni locali una classe di funzionari piuttosto efficiente, ma che non brilla certo per eccessi di protagonismo; tanto che a parte l’eccezione rilevante del piacentino Bersani, gli amministratori emiliani non hanno mai avuto brillanti carriere a livello nazionale (viceversa sono stati personaggi carismatici alla Cofferati ad avere i loro problemi con la base emiliana). Lo stesso plurigovernatore Errani non è mai stato una celebrità alla Formigoni, e difficilmente lo diventerà anche dopo una terza vittoria. Chi andrà a votarlo, più che l’Uomo, premierà la continuità, la tradizione, forse anche l’appartenenza… tutti valori che potevano essere espressi da qualsiasi altro amministratore emiliano capace, purché il PD lo candidasse. Riproporre invece per la terza volta lo stesso Uomo, per quanto validissimo (ma se è così bravo, possibile che non gli si possa trovare nessun altro incarico all’altezza?) lascia intendere che anche nella sinistra emiliana, dopo Errani, non ci sia che il diluvio. Una prospettiva, per chi ha meno di quarant'anni, abbastanza inquietante.
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Tuo sinceramente

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"Caro papà.
Come va? Io sto bene, ma la tua lettera mi ha un po' preoccupato.
Soprattutto mi ha preoccupato che invece di scrivere al mio indirizzo tu l'abbia mandata a Repubblica. Perché, ecco, se hai qualche problema preferirei che restassero in famiglia.

Allora, io il tuo messaggio non l'ho tanto capito. Ricapitolando: tu sei un pezzo grosso. Io sono tuo figlio e mi sto per laureare. Ora, dovrei essere veramente l'ultima anima candida d'Italia per non aspettarmi da un genitore serio e rispettato come te, in un momento così delicato per la mia formazione, un solenne spintone.

E invece mi arriva 'sta letterina aperta, in cui mi chiedi neanche tanto velatamente di levare le tende... Come no, certo, mio papà dirige la Luiss e io devo andare a fare l'assistente sottopagato alla facoltà di Stocausen... Papà, senti, senza tanta sociologia, dimmi qual è il vero problema: hai promesso a qualcuno un posto che tenevi per me? Ti sei innamorato? Ti ricattano? C'è in giro un tuo video con due trans e la Mussolini? Papà, sul serio, se c'è un problema possiamo parlarne.
Basta che non attacchi la manfrina della povera Italia – sai papà, noi giovani abbiamo tanti difetti, però non è che ci beviamo qualsiasi fregnaccia.

Tuo sinceramente".
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è++++++++èèèèèèèèè+

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Sogni di 1961

Hai notato come la gente come me e te si ritrovi sempre più spesso nel 1960?
Dopo cena, s'intende.
Al mattino infatti la sveglia è fissa agli anni Zero. (Dai, che è l'ultimo). (Dai, che tra un po' arrivano i Dieci, e con loro il posto e il mutuo a tasso fisso). (Dai e dai, perché non dovremmo diventare adulti pure noi?)

La gente come noi peraltro ha problemi sin dalla sveglia, che ogni notte va puntata a un'ora diversa. Se ci pensi, è un pessimo modo per finire/cominciare la giornata. Ma si sa, a un certo punto qualcuno ci ha traviato, ci ha raccontato che la flessibilità era qualcosa di nuovo ed eccitante, per cui lunedì ti svegli alle sette, martedì alle undici, mercoledì non ti svegli proprio nel senso che sei rimasto dilà a lavorare a una traduzione e sei crollato alle cinque del mattino col naso sul laptop e quando ti sei svegliato avevi riempito duecento pagine di hjjhjhjhjjjhjhjhjhjhjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjhhhjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjj
(per la verità a pag. 79 spostandoti nella fase rem e ti eri riposizionato su è+è+è+è+è+èèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèè+++++++++++++++++++++è+è+è+èèèèè++++++++++++ùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùàè+èèèè++++++++++++++++++++++++++èèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèè)
e prima di svegliarti, in un soprassalto di sonnambulismo, contemplando il tuo capolavoro avevi selezionato “Stampa”.

(La gente come noi, quando le dicono “Lo so che hai un romanzo nel cassetto”, sorride.
“Hai ragione. Ma è un po' sperimentale. L'ho scritto a notte tarda”. “Come Kafka!”).

Ma tergiverso quando tu hai fretta, vuoi finire il post per rispondere alla mail che ti è appena arrivata da Tizio che ti chiede se hai finito il lavoro dello scorso mese per Caio così può farti pagare da Sempronio, e tu non hai la minima idea di chi siano tutti e tre, e la colpa di chi è? È anche un po' colpa di Leonardo che scrive pezzi lunghi. Hai ragione, scusa.

Ma hai notato questa cosa buffa? Com'è che ci ritroviamo sempre più spesso proprio nel 1960?
Alla fine di queste giornate che non iniziano e non finiscono precisamente mai, dopo una cena mangiata di fretta o saltata proprio, ci si tuffa in una puntata di Mad Men, fresco di download; oppure si va al cinema a vedere Revolutionary Road che è la stessa identica bazza: pendolari suburbani che sbarcano a Grand Central alle otto in punto, salgono un ascensore, si ficcano in un ufficio dove non c'è nemmeno la macchina da scrivere (per quello ci si serve di apposite schiave), e ding dong, è già mezzogiorno. Ristorante, bistecca ai ferri, sigaretta, si fa anche in tempo a ingroppare la segretaria e prendere il treno delle 5.

Tutto filologicamente documentato, accuratamente riprodotto, scrupolosamente standardizzato, per il nostro sofisticato intrattenimento. Da quand'è che un passato non ci prendeva così?
Escluderei il fattore nostalgia; non eravamo nemmeno nati. Del resto siamo nati anche un po' troppo tardi per Happy Days dopo la Tv dei Ragazzi. Dopodiché, certo, ci sono generazioni che hanno ereditato la nostalgia di quella dei padri, ma non pensavamo d'essere altrettanto deficienti.

E quindi? E quindi chissà? Forse in quel passato così accurato e sottilmente claustrofobico, in quel passato omologante cinico e disperato, c'è qualcosa di consolatorio. Noi che un treno da prendere tutte le mattine ormai ce lo sogniamo; noi schiavi di noi stessi e delle nostre fottute scadenze, noi che guadagniamo un mezzo eurocent per ogni tasto che spingiamo; noi guardiamo Don Draper o Frank Wheeler sconfitti e frustrati e un po' ce la godiamo.
Mentre voi che avete vissuto all'apice della civiltà del consumo, e oggi siete cenere indistinguibile da quella delle vostre sigarette che non vi siete mai goduti veramente, voi: cosa sognavate sui seggiolini del treno, mentre tornavate a casa dalla mogliettina bionda? Scene di caccia, barricate a Parigi, western in bianco e nero, vite fuori dagli schemi, selvagge, precarie. Come le nostre, già! Sognavate di essere noi, è così?



[No. Forse è meglio avvertirvi che scherzo, non è così. È ovviamente il contrario. È che a una certa ora dopocena, non c'è mansarda parigina che non venderemmo per un lotto suburbano e la casina bianca dei Wheeler, per i lenti treni che si tuffano nel bosco e riemergono a Park Ave., per un po' di vuoto patinato standardizzato e una sveglia, una sveglia cromata che suoni cinque e solo cinque mattine alla settimana, e alla stessa fottuta ora].
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Sporcdrughè live in Maranello

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(25 giugno 2008)
  • Quaranta gradi in casa e il condizionatore piscia acqua, il tecnico al telefono ha detto per carità non azionatelo, noi magari tra due mesi lo ripariamo. Bene, ma stasera piuttosto di restare in questo sottotetto t'accompagno a Maranello a vedere i Bluvertigo.

  • No, no, tranquilla che non lo scrivo, un post sui Bluvertigo, è vero che mi sono un po' antipatici, ma è un'antipatia senza nessun significato sociale o politico, mi stan sulle balle e basta, che senso ha parlarne? Poi sembra di essere gli stronzi.

  • C'è che sono miei coetanei, e dei miei coetanei non mi va di parlare. I giovani sono patetici, i vecchi rincoglioniti, ma i coetanei no-comment. Effettivamente stavano vendendo dischi, o romanzi, mentre io non lo facevo. Io in quel periodo, soprattutto, ignoravo. Più che altro per dribblare l'invidia, che è una bestia brutta.

  • Però poi vorrei anche dirti che non mi sono perso niente, che le mie intuizioni sui coetanei avevano del buono. In effetti, spiegami com'è che ogni volta che ripescano qualche residuato dei Novanta sembra più vecchio dell'artista omologo anni Ottanta? Ma è un discorso che vale per il mondo intero, vuoi mettermi gli Oasis con gli U2? Probabilmente c'erano fattori universali che hanno determinato che l'ultimo decennio del secolo fosse un decennio di mezzecalze.

  • Uno di questi fattori è la saturazione. In campo musicale, o di costume, i Novanta arrivano dopo quarant'anni ininterrotti di evoluzione stilistica, in pratica era impossibile inventare qualcosa di nuovo: e allora si citava. Si citava per necessità, perché non si aveva veramente molto di originale da fare, però a un certo punto citare diventò il gioco più hip che c'era in città, si passavano lunghe serate a misurarsi – tu non puoi capire, erano cose soprattutto da maschietti – lunghe sedute a vedere chi citava più lungo. Tutto senza nessuna capacità selettiva, gli Alphaville valevano quanto Battiato, vinceva chi aveva più memoria e più dischi vecchi in casa. Ecco, i Bluvertigo (a proposito, siamo qui da mezz'ora, quando attaccano?) mi sembravano, mi sembrano, i rappresentanti quegli anni postmoderni nel senso che bastava la parola “postmoderno” per sembrare chissachi, e invece la verità era che si andava in giro oberati da un'enorme “cultura” divorata e maldigerita, una mole di dati che non riuscivamo a disciplinare e saltava fuori sempre a sproposito: testi di canzoni e dialoghi di film responsabili di storie finite male con ragazze che poi si sono sposate al primo stronzo e tutto il resto.

  • Comunque i Novanta sono passati, e non so se lo hai notato; la gente cita meno. Per vari motivi, ma uno dei primi credo sia internet. Per esempio, gli Oasis hanno fatto conoscere a molti ragazzini i Beatles; passo successivo, i ragazzini si sono scaricati i Beatles; terza fase, hanno smesso di cagare quei pianobaristi dei fratelli Gallagher. Tutta quella straordinaria memoria che ci serviva negli anni Novanta per trovare il pezzo giusto da mettere nella cassettina giusta, oggi non ci serve più, un clic e via - la possibilità di farsi archivi enormi e portabili ha banalizzato quelle capacità di memoria e di critica che in quegli anni non erano mica un lusso, erano un esigenza. Analogamente, se proprio mi viene l'insano desiderio di vedere qualcuno pittato come i Duran Duran ai tempi di Rio, faccio molto prima a mettermi su youtube che a venire qui a Maranello ad aspettare questi cazzo di Bluvertigo che, ha detto il tipo, “cominceranno tra mezz'ora per problemi logistici”. Logistici?

  • Allora siamo qui seduti all'ombra del monumento ad Enzo Ferrari a forma di stronzo. Dietro c'è una chiattona che ripensa alla sua prima cassettina dei Bluve “nel novantasei”. Davanti c'è una ragazzina DEL novantasei che guarda il backstage con sguardo canino e rapace: “Cioè, se sapessi come fare a entrar lì... è come se... (spiega all'amica)... qual è il tuo gruppo preferito? I Tokio Hotel? Cioè, è come se i Tokio Hotel fossero lì dietro...”

  • Sì, ecco, dimenticavo, c'è questa cosa della televisione. C'è che Morgan è andato in tv, quest'anno, e pare che abbia salvato da solo un programma di giovani talenti con Simona Ventura. E quindi adesso da vecchio arnese anni Novanta si trova sbalestrato sul target dei Tokio Hotel. Secondo me ha fatto bene, eh. Però anche solo se dico così, si capisce che sotto sotto intendo il contrario, che per me un citazionista succube delle proprie citazioni, uno che si traveste per eludere il problema dell'identità, è perfetto per la tv, dove si colloca tranquillamente nella fascia di brontoloni televisivi tra Sgarbi e Zeri; inoltre, siccome il format di Simona Ventura è la versione nobile e hip di Amici di Maria De Filippi, avrei buon gioco a constatare che Morgan si è trasformato nella versione nobile e hip di Platinette. Poi tu t'incazzi ma cosa ci posso fare se questo passa tre mesi pittato in vari modi a difendere l'integrità artistica contro la dittatura del Televoto, e poi porta al trionfo una boyband salentina di trentenni con la pancetta che steccano pure? Ecco, meno male che cominciano a suonare. Andiamo in mezzo, però, perché da qui non si sente tanto bene, eh.

  • Si sente male anche in mezzo, e lui non si regge in piedi. Ma non è questo il problema. Il problema è che è giù di voce. Veramente parecchio giù di voce. Non stecca, non sbaglia a suonare, ma la voce è un graffio che fa male a sentirla. Per fortuna che parecchie strofe sono su una nota sola. La gente comincia a dire “drògati meno”. 

  • Mi viene in mente che io sono cresciuto in un posto un po' più piccolo, ma sostanzialmente simile, dove ai tempi della mia prima infanzia c'era una cumpa nota come “i drogati”, i quali si ritrovavano al pomeriggio, bada bene, nel cortile davanti alla chiesa, e fumavano. Erano effettivamente gli anni dell'eroina a prezzi popolari. In seguito però seppi da fonte attendibilissima che “i drogati” non si drogavano affatto. Fumavano Marlboro, proprio come nel pezzo degli Offlaga. Però ci tenevano a essere chiamati “i drogati”, e li posso capire: è una gran consolazione, se vivi in un paesone, lo sguardo della vecchietta che passa, ti fissa e pensa Sporcdrughè.

  • Poi penso a una cosa che mi ero scordato, e che mi ha rimesso in mente Enzo: che negli anni Novanta, per esempio, abbiamo *lavorato* anche a una rivista dove una volta comparve un'intervista a Morgan, non fatta da noi, ma da uno che, vivendo veramente negli anni Novanta, Morgan lo idolatrava. E dunque a un certo punto gli chiedeva: perché ti pitti le unghie? Cioè, noi stavamo cercando di mettere su una rivista letteraria, e su questa rivista un tizio chiedeva al suo cantante pop la ragione intrinseca del suo pittarsi le unghie. Ma vabbè. Comunque Morgan rispose che se le pittava per studiare le reazioni della gente, per esempio, se poi entrava dal tabaccaio, cosa avrebbe pensato di Morgan e delle sue unghie nere?

  • Questa cosa ci fece molto riflettere. Coniammo anche un'espressione, purtroppo intraducibile, che doveva riassumere una certa velleità ribelloide affetta da inestirpabile provincialismo: épater le tabacchèin. Cercammo anche di raffigurarci il quadretto: un tabaccaio qualsiasi degli anni Novanta, con un'intera stanza di videopoker abusivi, alle spalle precedenti per ricettazione e spaccio. Le cinque del pomeriggio. Entra Morgan, chiede un lollipop, e lo scarta facendo ben vedere le sue unghie pittate di fresco. Il tabaccaio sovrappensiero non reagisce – sta pensando che se la rumena non si sbriga a pagare il subaffitto del seminterrato bisogna sloggiarla con le maniere forti, ma è una grana – e allora Morgan glielo dice: “ehi, hai notato che ho le unghie pittate di nero? Che te ne pare? Sono o non sono un ragazzaccio? Un maudit?”

  • Insomma, non ha voce. Tu non hai idea di cosa riescano a combinare i cantanti quando non hanno voce. Mio cugino per esempio si buttava a pesce dovunque, senza nessuna pretesa di essere sorretto, si buttava anche sulla batteria, e poi il batterista voleva menarlo, ma in un qualche modo la serata era risolta. Una cosa che mi faceva abbastanza ridere erano quelli che guardavano Xfactor e commentavano quant'è fatto Morgan, ma perché non gli dicono niente? Cioè: secondo voi Simona Ventura dovrebbe dire a Morgan “Vacci piano?” Ma ti ripeto: non stecca e non sbaglia a suonare, quindi è abbastanza lucido.

  • E continuano. “Fatti di meno! Drughèèèè! Ecc.” E io vorrei urlare Lasciatelo Stare, è giù di voce e sta cantando da un'ora, non vedete che a suo modo ce la sta mettendo tutta? Non vedete che si vergogna anche lui, ma tira avanti, e se c'è l'acuto ti fa pure l'acuto, soffre ma lo fa? Ma sarebbe come barare. Oggi il gioco è questo: lui fa lo Sporcdrughè, e noi siamo il suo pubblico di tabacchini.

  • Se dio vuole comincia a far fresco. Speriamo di dormire stanotte. No, ti giuro, no, non lo scrivo un pezzo su Morgan, in fondo mi è simpatico.

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Questo è Intrattenimento

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Se anche questa sera voglio stare a casa

Drin, drin
“Pronto, ma chi è?”
“Sono Arci, disturbo?”
“S-no, aspetta... solo un attimo... devo pausare... ecco”.
“Cos'è che devi fare?”
“Ma niente... stavo guardando una cosa sul... sul lettore. Dimmi”.
“Ma hai sentito di Genova?”
“Eh?”
Il processo! Hanno condannato quelli che sono entrati alle Diaz”.
“Ah, bene”.
“Ma bene un cazzo! Hanno preso solo i pesci piccoli! Tutti i graduati scagionati...”
“Ahi”.
“Io non ho parole. Non le ho più, veramente”.
“Eh”.
“E neanche tu, mi sembra”.
“Ma infatti cosa vuoi che ti dica, guarda... è uno schifo”.
“Altroché”.
“Ma mica da oggi”.
“Infatti io non ne posso più. Ne ho parlato anche con Aurelio. Te lo ricordi Aurelio”.
“Come no”.
“Lui dice che siamo a Vienna ormai. Il congresso, capisci?”
“Che congresso?”
“Il congresso di Vienna! 1814! La restaurazione in tutta Europa! È lì che siamo tornati!”
“Beh, in effetti”.
“Per cui lui sostiene che bisogna ripartire da lì”.
“Che in pratica vorrebbe dire...”
“Insomma, stiamo rifondando la Carboneria”.
“Tu e Aurelio”.
“Ti chiamavo infatti per sapere se ci volevi stare”.
“Eh?”
“Sta tranquillo, chiamo da un anonimo occultato. Comunque se ci stai d'ora in poi dovremo comunicare con un codice crittografico che...”
“Scusa, eh. Però non mi sembra una cosa seria questa. Cioè, mica si fonda in due o tre, la Carboneria”.
“Ah, ma non credere che all'inizio, nel 1814, fossero molti di più”.
“Sarà, ma comunque...”
“E anche in seguito, c'è poco da scherzare, sai? La prima generazione, tutti alla forca. Il carcere duro nei casi fortunati. Però da qualche parte bisogna pure iniziare. E allora, ci stai o no?”
“Ci devo pensare”.
“Balle. Sì o no, avanti. Non posso mica perder tempo, sto chiamando tutto l'indirizzario del duemilaetré”.
“Vedi, il punto è che ho tantissima roba da fare, tu non hai veramente idea di quanta”.
“Bravo, spezzati la schiena per Tremonti”.
“C'è questo mutuo maledetto che...”
“Bla bla bla”.
“E ho anche messo famiglia, sai”.
“E che futuro le prepari, ci stai pensando?”
“Arci, ma ti rendi conto? E' mezzanotte, sono qui sprofondato sul divano e tu mi telefoni per chiedermi di unirmi a una congiura e ti devo dire sì o no subito? Non posso pensarci almeno fino a domani?”

La mia generazione non è che abbia avuto tutte le fortune del mondo, eh, possiamo anche dirlo.
Certo, ad altri è andata pure peggio. Noi siamo pur sempre quelli troppo giovani per le pere e troppo vecchi per il crack. Non ci hanno nemmeno fatto respirare il ddt. In compenso siamo stati irradiati da tantissima televisione a colori che, si è scoperto in seguito, faceva male.
E si vede. Prendi un trentenne di successo a caso (uno dei 15 trentenni di successo di cui si fregia l'Italia): uno scrittore o politico o musicista o che ne so. Grattalo un po', e vedrai cosa salta fuori: Goldrake e Fonzie, Fonzie e Goldrake. Tutto qui? Quasi sempre tutto qui. Eppure.
Eppure, a furia di prendere sberle dalla Realtà, a un certo punto sembravamo esserci svegliati pure noi. E proprio quando cominciavamo a capire che il mondo aveva bisogno del nostro impegno. Proprio quando cominciavamo a sensibilizzarci, a responsabilizzarci, a organizzarci. Proprio quando ci apprestavamo a raccogliere il testimone dai quarantenni spossati, proprio quando sembrava giunta finalmente l'ora di uscire di casa...

“Se proprio insisti ti richiamo domani”.
“Oh, grazie. Adesso ciao, eh?”
“Ma senti. Cosa stai guardando?”
“Io? No, niente”.
“Come niente. Quando ti ho chiamato, hai detto che mettevi in pausa qualcosa”.
“Mah, sai, è una serie americana che ho scaricato”.
“Una serie?”
“Sì, è la quarta serie di un telefilm che... qui da noi in chiaro stanno ancora mandando la terza... devo dire che mi sta prendendo”.
“E di che parla?”
“Mah, è un gruppo di straordinari eroi che lotta per la salvezza del loro mondo, ma... detta così, suona ridicola”.
“Mentre invece...”
“Mentre invece ognuno di loro ha una storia molto incasinata, gli elementi fantastici sono finalizzati alla caratterizzazione psicologica, ci sono degli incastri narrativi particolarmente complessi, insomma è scritta davvero bene, certe volte ti viene l'invidia, davvero...”
“Ti sento molto entusiasta”.
“Beh, guarda, mi ero messo lì a guardare un episodio alle sette, e poi...”
“E' mezzanotte ormai”.
“Cacchio, vuol dire che sono qui sul divano immobile da cinque ore”.
“Non devi andare in bagno?”
“No. Anche perché non ho bevuto niente. Disidratato”.
“Gli americani sanno il fatto loro”.
“Ah, ma quando ti capita di vederla, capirai. Cioè, magari i primi due episodi ti sembra una stronzata. No, diciamo che fino a metà della prima serie è una stronzata. Ma poi....”
“Ti prende”.
“Se vuoi ti passo la prima serie, c'ho il cofanetto... comunque sul mulo trovi tutto, eh”.
“Grazie, ma non credo che avrò il tempo”.
“Ah già, dimenticavo, la Carboneria”.
“Sì, quella m'impegnerà molto, temo”.
“Allora mi richiami domani?”
“Forse”.
“Solo magari cerca di suonarmi verso le sette, perché dopo...”
“Non vuoi essere disturbato”.
“Mi mancano ancora sei episodi. Così dopo non ci penso più”.
“Ma dopo ne troverai un'altra”.
“Un'altra così? No, questa è davvero l'ultima”.
“Dici sempre così”.
“A domani allora, eh?”
“A domani”.

...Proprio quando sembravamo finalmente cresciuti, flop! Atterrarono in un colpo sui nostri salotti centinaia di serie americane, tutte meravigliose e intriganti, tutte più intelligenti di quanto non sembravano, tutte scaricabili gratis, tutte per noi. Direi che anche stavolta il Risorgimento è rimandato.
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Nonnumquam frivolus amentique similis

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Nemmeno della sua stessa imbecillità volle tacere, affermando in alcuni brevi discorsi di averla simulata di proposito, durante l'impero di Caligola, per sopravvivere e raggiungere la sua presente condizione. Ma non convinse nessuno... (Svetonio, Le vite dei dodici Cesari)

C'è solo un Francesco

No, alla fine a Roma non sono venuto. Il sabato lavoro; e non era il caso di prendersi ferie, con l'aria che tira, e con lo sciopero di giovedì.

Così, quando credevo fosse giunta l'ora, ho acceso la tv, ma sul Tre era troppo presto per Veltroni. Invece sul Due c'era Dj Francesco che presentava un programma musicale contro la camorra.
Su Dj Francesco naturalmente si possono scrivere cose orribili, ma io oggi non voglio farlo. Voglio soltanto chiedervi: che effetto vi fa, nella stessa frase, “Dj Francesco” e “contro la camorra”? A me dà una vertigine particolare, di cui si parlerà più tardi.

Mentre DjF faceva del suo meglio, ho dato un'occhiata al mio sito (questo), dove timidamente stava nascendo un dibattito su Cossiga. La domanda, la solita: ci è o ci fa? Per me – l'ho scritto – si tratta di un vecchietto che sbaglia i dosaggi e straparla. Altri non sono d'accordo: per Non ne so abbastanza (che comunque ne sa a pacchi) Cossiga è sempre stato lucido, e le sue straparole costituiscono un messaggio meditato. Anche questo è possibile: di certo è quello che Cossiga vorrebbe farci credere.

Io resto scettico. Non sono un cossigologo, ma il personaggio un po' mi ha sempre affascinato. Talvolta l'ho trovato simile a uno dei più ambigui imperatori romani: Claudio. Se i misteri italiani vi snervano, provate a pensare che su Claudio gli storici si dibattono da secoli, e la domanda è la stessa: c'era o ci faceva? Prima che fosse acclamato imperatore, egli era disprezzato da tutti i famigliari: perché? Aveva qualche malformità, un handicap che gli storici non hanno voluto tramandare? Pare che sbavasse molto, e qualcuno ha ipotizzato una polio, o qualche forma di paresi infantile. Comunque, mentre il nipote Caligola dava l'aria di essere un pazzo geniale, Claudio passava per un mediocre deficiente. E in questo modo sopravvisse a tutte le purghe e congiure, dedicandosi ad astrusi studi di Storia.

Però quando i pretoriani ammazzarono Caligola, trovarono Claudio nascosto dietro una tenda, e lo acclamarono imperatore. Da qui la leggenda di Claudio che si finge stupido per ottenere il potere. Ora, senz'altro l'uomo non era l'imbecille che tutti fino a quel momento avevano creduto. Fu persino un discreto imperatore. Ma probabilmente non era nemmeno così furbo come avrebbe voluto far credere: lo provano le disavventure con le due ultime mogli, Messalina che lo tradiva in pubblico e Agrippina, che lo avvelenò. Insomma: genio o idiota? La risposta è probabilmente nel mezzo.
Ma se invece fosse alle estremità? Dopo aver passato i primi cinquant'anni della sua vita a fingersi idiota, Claudio impiegò i successivi quattordici a fingersi un abile politico e stratega. Ecco, credo che Cossiga si trovi in una situazione in qualche modo simile: un mediocre appassionato di Storia che la Storia ha sballottato, premiandolo ben oltre i suoi meriti, ma anche condannandolo in eterno a sembrare più stupido (o più intelligente) di quanto non sia mai effettivamente stato.

Nel suo caso il discrimine non è stato tanto l'arrivo al Quirinale (nei primi cinque anni fu un Presidente assolutamente mediocre, rispettoso dell'etichetta ai limiti dell'immobilità), quanto il fatidico 1989. Le famose “picconate alle istituzioni” cominciano qualche mese dopo. Si tratta di dichiarazioni immaginose e spesso volgari (per l'epoca: Cossiga è stato uno dei principali svecchiatori del linguaggio politico italiano: prima di lui si parlava per “convergenze parallele”, adesso si dice serenamente “papocchio” e “inciucio”). Con le picconate il Presidente, non ancora Emerito, si conquistava la prima pagina dei giornali, dando l'impressione di cercare un consenso popolare al di fuori dal bacino del suo vecchio e rinnegato partito. Sin dall'inizio, l'opinione pubblica si divise in imbecillisti e intelligentisti... In realtà questi termini non furono mai usati, infatti me li sto inventando in questo momento, ma capiamoci: a chi diceva: “è diventato matto” si contrapponevano già allora i subodoratori di chissà quali astuzie e complotti.

In realtà le sue picconate non ebbero esiti pratici paragonabili alle inchieste del pool di Milano; che le istituzioni fossero in crisi ce ne saremmo accorti anche senza le sue esternazioni: e se il fine ultimo era conquistare un bacino elettorale e imbastire un carriera politica post-quirinale, Cossiga lo fallì miseramente, dando vita a effimeri partitini sotto il due per cento. Insomma, la tesi intelligentista non regge alla prova dei fatti. Viceversa, la tesi imbecillista trova qualche riscontro persino in dichiarazioni dell'interessato, che non ha mai negato di avere attraversato periodi di depressione, durante e dopo il Quirinale. E durante le depressioni si può anche straparlare, specie se resti solo davanti ai microfoni. Poi magari ti passa, e cerchi di dimostrare che non hai perso la ragione, e che tutto quello che dici aveva un senso, che insomma, tu sei più intelligente di quello che sembravi. Ma non c'è nessun complotto a questo livello. C'è solo il tentativo – legittimo – di salvare la faccia. Negli ultimi vent'anni Cossiga ha alternato periodi di relativo silenzio a dichiarazioni molto forti – si è persino auto-accusato di avere ucciso Moro, perché? Qual era il messaggio in codice? Posso sbagliarmi, ma il messaggio che ho decrittato io è: “Ascoltatemi. Ho bisogno di attenzione. So molte cose e non sono pazzo”. No, non lo è. Magari è una forma lieve di mitomania, tutto qui.

Cossiga è stato un sobrio servitore dello Stato, di ferrea osservanza atlantica, fino al 1989. Poi ha cominciato a dire molte sciocchezze ai giornalisti. Proprio nell'anno in cui l'Alleanza Atlantica ha perso il suo nemico naturale, il Patto di Varsavia. Non credo sia una coincidenza. Per dirla brutalmente: fino al 1989 Cossiga era un uomo degli americani. Dal 1989 in poi gli americani se ne sono disinteressati, cominciando a flirtare con polacchi e ungheresi. Il suo dramma è quello di tutti noi italiani, che fino al 1989 abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, credendoci simpatici e geniali; e invece no, eravamo semplicemente sponsorizzati dagli USA per motivi geopolitici. Quando il Muro è caduto, la pacchia è finita, e Cossiga si è messo a straparlare per occultare il fatto che non aveva più niente d'interessante da tacere. Quelli che fino a pochi mesi prima erano segreti di Stato (Gladio), Cossiga li ha immediatamente svenduti come argomenti da polemichetta sui giornali, sinceramente stupito e addolorato che ci fossero ancora persone talmente dabbene da prenderlo sul serio, e magari votarne l'impeachment.

Questo non significa che le sue uscite non siano interessanti. Ripeto, l'ultima è stata illuminante. Non escludo nemmeno che possa avere avuto un effetto sul brusco retro-front di Berlusconi sulla polizia nelle scuole. Ma che Cossiga abbia mirato consapevolmente a questo, beh, mi pare forte. Insomma, quante sciocchezze deve dire il vecchietto, prima che gli intelligentisti si rendano conto che sta semplicemente esprimendo un bisogno d'attenzione?

Io credo che dietro all'intelligentismo ci sia un altro problema. Cossiga fa parte, nel bene e nel male, del mondo della nostra infanzia. Lui vegliava su di lui, con metodi discutibilissimi. Ma vegliava su di noi: ci faceva sentire importanti. Non era il grande vecchio, decisamente no. Più simile a una pedina piazzata su una casella strategica. Da giovani fantasticavamo su cosa sarebbe successo nel momento in cui ci saremmo liberati di lui e di tutti quelli come lui. Ma sembrava una prospettiva impossibile. Fantascienza.

E poi un giorno, puf! Lui e i suoi amici hanno davvero smesso di essere importanti. Sarebbe bastato un colpo d'aria per mandarli via. Avremmo potuto prenderne il posto, ma non eravamo preparati. Nessuno ci aveva preparati. La sola idea di fare senza di loro ci dava la vertigine. E così ce li siamo tenuti. Continuiamo a trovarli molto intelligenti, anche se ormai sragionano visibilmente. Continuiamo a odiarli e a ritenerli complici di chissà quali complotti, perché qualsiasi complotto è meglio del Caos. Proprio non ce la facciamo, a sbarazzarci dei vecchietti. E nel frattempo stiamo invecchiando anche noi.

Finché un giorno non cominci a sentire troppa puzza di muffa e ti rendi conto che sarebbe ora di aprire le finestre, affidare l'Italia ai giovani, e cioè... a Dj Francesco. E la sola idea ti dà i brividi. Dj Francesco contro la camorra. No, non ce la faccio, non riesco a crederci, non posso. Rimettiamoci a parlare di Cossiga, subito. Cosa starà complottando? Qualcosa di molto subdolo, spero. Qualunque cosa.
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ump ta ta, ump ta ta

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La strage alla sagra d'Autunno
("La voce di Rimini", estate 2000)

Brigadiere, Fischio non era un tipo cattivo. Lo lasci dire a me che lo conoscevo.
Faceva il deejay, sì, ma che vuol dire? È un mestiere come un altro, peggio di tanti altri, coi tempi che corrono. La fiera d’Autunno del 2015 finiva quella sera; cominciava a far fresco. Tra un po’ la gente avrebbe cominciato a passare le serate nei locali al chiuso, ma quell’anno Fischio non aveva nessun contratto con nessun locale. Insomma era l’ultima volta che metteva su i suoi dischi, e a nessuno gliene fregava niente. Nello Stand Giovani della fiera ci saranno state una ventina di persone si e no.
32, dice lei?
Ah, lo dice il comunicato ufficiale.

Non so, forse qualcuno da fuori ha sentito il casino e ha cercato di intervenire. Cosa crede, non si sono mica tutti arresi senza combattere… io? io quando ho visto che perdevo sangue dalla testa mi sono gettato a terra, ho fatto il morto. Lei cos’avrebbe fatto? Erano cinque a uno, Brigadiere.

No, Brigadiere, no, mi stia a sentire, non ci fu nessuna provocazione. O meglio. Io penso che sia stato un errore mettere lo Stand Giovani così vicino allo Spazio Ricreativo Terza Età. Quelli hanno un sacco di soldi e fanno il pienone tutte le sere – ma soprattutto hanno un sound system, mi permetta, della madonna. Fischio doveva portare le casse sue da casa, e poteva anche averci della roba buona, ma senz’altro era il liscio romagnolo a sovrastare la techno, non il contrario. Quel maledetto tre quarti tutto il tempo, ump ta ta, ump ta ta… faceva uscire di testa. Già si era in pochi, e sempre gli stessi, come si faceva a farsi venire voglia di ballare? Venivamo solo per fare piacere a Fischio.

Brigadiere, non mi guardi così, lei mi crede fatto o chissà che, ma è solo stanchezza. Io dopo i funerali ieri sono andato al lavoro, cosa crede?
Sì il turno di notte. In casa di riposo, naturalmente. È un interinale. La settimana scorsa facevo la vendemmia, e la sera si e no mi tenevo in piedi, secondo lei mi ci sarei buttato di mia volontà in un casino così? Senta, ho 28 anni, due lauree brevi e un diploma di specializzazione. L’altro giorno ho fatto il calcolo e ho scoperto che andrò in pensione a centovent’anni. Non è male, guardi, conosco sì, , certo, se la speranza attuale di vita è 135… Ma lei, mi permetta, brigadiere, quanti ne ha? Ottantasei? E ci va l’anno prossimo? Ah, però.

Io me la vedo male, Brigadiere, sa? A casa mi devo nascondere. Mio padre non mi vuol vedere, mio nonno mi disprezza, e la bisnonna mi chiama a voce alta dalle scale: fannullone, parassita, mammone. E cosa ci posso fare? Tra due anni ci sarà il concorso, e con un po’ di fortuna finirò in graduatoria, diciamo tra i primi duecento: altri dieci anni e mi sistemo. Un bilocale con la mia ragazza… chi lo sa, magari un figlio… Ma nel frattempo debbo vivere coi miei, non c’è rimedio…

…mi chiede questo cosa c’entra… beh, Fischio era nella mia stessa situazione… o peggio. Vivere coi genitori (e i nonni) per un deejay è una vera umiliazione… tutto il giorno, sentirti interrompere da una voce che ti dice tesoro, per favore abbassa il volume, stiamo cercando di vedere la milleseicentesima puntata di cuorinfranti o chennesò… esasperante… e so per certo che la settimana scorsa la ragazza lo aveva mollato: è andata a vivere con un sessantenne del ramo import-export, un tipo sportivo… uno col porsche coupé, ha presente… Fischio, per dire, era uno che si faceva prestare l’apecar del nonno, che a trasportare l’impianto gli servivano due giri…

No, apparentemente non l’aveva presa male, però chi lo sa, magari dentro ci moriva. Sono cose difficili da sopportare, alla nostra età… Per di più dal giorno dopo sarebbe stato ufficialmente disoccupato. Brigadiere! per un disoccupato alla nostra età non c’è speranza, non c’è sussidio! Sì, sì d’accordo, se al posto della patente da tecnico del suono avesse preso, per dire, quella da conducente di carrozzine, il lavoro non gli sarebbe mancato: ma i giovani devono seguire i propri interessi, non è quello che si dice sempre a scuola?

E poi i giovani devono divertirsi finché hanno il tempo. Si sente dire anche questa. E io faccio il possibile per divertirmi, per esempio l’altra sera mi sono sforzato di uscire per andare a sentire il mio amico Fischio deejay. Anche se lo sapevo già che lo Stand era un mortorio, mi perdoni la battuta orribile. Le solite facce arrabbiate – no, neanche arrabbiate: stanche. Tante smorfie non erano che sbadigli repressi.
E a pochi metri da noi, quei vecchi – pardon – quegli anziani scatenati, in centinaia a strusciarsi senza ritegno con le loro polche e le loro mazurche, tutto il tempo, ump ta ta, ump ta ta… tra cent’anni vivranno ancora e ascolteranno ancora la stessa musica, mi diceva sempre Fischio. Non si schiodano. Certo, per quel che devono fare domattina, diceva ancora… svegliarsi a mezzogiorno e andare a tirare la pensione…

Brigadiere, era l’ultimo pezzo della serata. Era l’ultima serata della fiera. Era la Fiera d’Autunno. Può anche darsi che Fischio abbia alzato un po’ il volume, può anche darsi che lo abbia tirato un po’ in lungo, e allora? Ricordo che ho dato un’occhiata al mio orologio ed era un quarto dopo mezzanotte. Ma lo sa che neanche dieci anni fa nello Stand Giovani si ballava fino alle tre? Me lo racconta sempre mio fratello più grande… ma è vero che a quel tempo eravamo più forti, più organizzati…

Insomma quand’è arrivato quel tappetto, come si chiama, Prosperi Alcide, non ci volevamo credere. Senza dire beo questo tizio, avrà avuto un’ottantina d’anni, si mette davanti alla consolle di Fischio e gli stacca la spina. Silenzio, di colpo – silenzio per modo di dire, perché in realtà si sentiva un Ump ta ta ump ta ta incessante. E poi la voce stridula dell’Alcide si mette a rovesciare insulti su Fischio, sul tono di: drogato di merda, hai visto che ora è? va a lavorare, non ti vergogni, sei la disgrazia di tua madre e tua nonna.

Brigadiere è vero, a quel punto Fischio l’ha toccato.
Può persino darsi che lo abbia spintonato un po’. Ma è stato il gesto di un attimo, e poi il Prosperi lo abbiamo aiutato in tre a rimettersi in piedi, e ci siamo assicurati che stesse bene prima di lasciarlo andar via.

Ecco, brigadiere, il fatto – la provocazione, come dice lei – è tutta qui. Chi se lo immaginava che il Prosperi se ne sarebbe tornato di lì a cinque minuti, con un po’ di amici suoi, un’ottantina? Tutti armati di stampelle e cagnole? Dai settantenni ai centenari c’erano tutti i signori dello Spazio Ricreativo Terza Età, e secondo me si erano messi d’accordo prima. Io ho visto anche volare delle bocce, brigadiere, in particolare ne ho vista una che aveva preso la mia testa per il boccino. Venivano da tutte le parti, eravamo circondati. L’ultima cosa che ho visto è stata Fischio cadere sotto i colpi mentre cercava di difendere le casse, che erano proprio sue, se le portava da casa. Poi ho chiuso gli occhi e non ho più voluto veder niente. Ma non potevo fare a meno di sentire quel maledetto Ump ta ta, Ump ta ta, che scandisce i tre quarti in eterno.


(Ogni volta che a settembre provo ancora a uscire, e andare a un concerto, mi sembra che la balera diventi sempre più grande, e ripenso a questo raccontino. Ha già otto anni).
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caccia la grana, nonno

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Da quando Padoa Schioppa li ha chiamati bamboccioni, i giovani d’oggi sono diventati popolarissimi. Soprattutto a centro-destra, dove tutti improvvisamente si accorgono che avere vent’anni è un problema. Gli affitti. Le caparre. Il precariato. Paolo Guzzanti è scatenato. "Se un ragazzo vuole prendere in affitto una topaia non gli bastano oggi tremila euro soltanto per firmare un contratto prima ancora di cominciare a pagare l’affitto". Qualcosa non mi torna. Tutta questa gente dov’era, cinquanta ore fa?
Non erano gli stessi pronti a denunciare per concorso in brigatismo chiunque parlasse male della Legge 30 detta Biagi? Non erano gli stessi che in cinque anni di governo hanno lasciato andare gli immobili alle stelle? La strategia di Tremonti per fare uscire di casa i giovani in cosa consisteva esattamente? Perdonatemi se a tutti questi avvocati della gioventù per il momento preferisco Padoa Schioppa, che borbotta, sì, ma scuce.

D’altro canto è pure vero: il suo paternalismo è vomitevole. Ma è un tic molto diffuso. Mi fa venire in mente una cosa che ho scritto sei mesi fa. La ripubblico qua sotto, non avrei molto da aggiungere.

Se mille euro al mese (in due) vi sembran tanti

Caro Augias,
sto leggendo con molto gusto i servizi di Concita de Gregorio sulla famiglia italiana, pubblicati sul retro della sua rubrica.
Martedì scorso, la sua collega ha coraggiosamente messo il dito sulla piaga purulenta della società italiana: i mammoni, i parassiti, insomma, i figli che non schiodano mai di casa. Le percentuali contenute nel pezzo sono agghiaccianti: in Italia 7 maschi su 10 tra 25 e 29 anni vivono coi genitori. I mammoni spesso hanno un lavoro, eppure non contribuiscono al bilancio famigliare: non puliscono, non fanno la spesa, hanno libero accesso al frigo, insomma protraggono scandalosamente i privilegi dell’infanzia.
Nei carruggi genovesi, la giornalista ha snidato un esemplare di giovane adulto italiano che a 27 anni, malgrado porti a casa uno stipendio (400 euro) e abbia una relazione seria con una “fidanzata”, inspiegabilmente non schioda. Il bilancio della famiglia rimane così tutto sulle povere spalle del padre gruista: 58 anni, 1800 euro al mese “arrotondati con qualche lavoretto” (un bel modo all’antica per dire che prende del nero, ma pazienza).
Caro Augias, non c’è dubbio che un 27enne che si porta la ragazza in casa e chiude a chiave sia qualcosa di squallido; qualcosa di cui dobbiamo cominciare a vergognarci; qualcosa su cui è giusto puntare il dito, come coraggiosamente ha fatto la sua collega. E tuttavia qualcosa non mi torna. Nel pezzo di martedì c’è un’affermazione un po’ curiosa. È scritta in corpo sedici, perché tutti la notino. La de Gregorio scrive che i due giovinastri che passano le serate “in famiglia”…
arrivano a mettere insieme 1000 euro al mese, ma non se la sentono di cercarsi una casa e fare un figlio.

Caro Augias, francamente non m'intendo molto dei prezzi di Genova. Ma i casi sono due: o è un’isola felice in tutta l’Italia settentrionale (nel qual caso mi ci trasferirò immediatamente con la mia compagna, abbattendo quasi del 50% le mie spese correnti), o c’è un refuso. Perché vede, d’accordo con la mentalità parassitaria e tutto il resto, ma nessuna coppia sana di mente, al giorno d’oggi, si cercherebbe una casa con mille euro al mese. Una casa? Un affitto? O magari un mutuo? E magari anche i mobili, la cucina, il posto
macchina? E dopo tutto questo… un figlio? Pannolini, pappe, culle, vestitini, madre probabilmente licenziata (a 600 euro al mese è difficile credere che il suo contratto la tuteli)?

Metter su famiglia con mille euro al mese… Qui non si tratta di essere poveri ma belli: qui è roba da folli o criminali. Qui dopo tre mesi i servizi sociali ti tolgono il figlio. Come minimo. E fanno bene.
Perché d'accordo, il mammismo è un problema: ma è inutile puntare il dito sul mammone. Lui non fa che incarnare il problema, e tirare a campare. Fingere che dipenda da lui, in un Paese dove qualsiasi buco con servizi costa come una reggia, è nascondersi dietro le cifre: come pretendere che i sanculotti si sfamino a brioches. Per quanto possa ingegnarsi o darsi da fare, il mammone non raggiungerà mai i 1800 euro più nero del padre. Ergo, chi glielo fa fare di crearsi un nido nuovo? Sarebbe persino irresponsabile, da parte sua. Non gli resta che attendere che i suoi vecchi gli smollino la casa, per consunzione. Del resto le probabilità che il padre nei prossimi anni venga colpito da un incidente professionale sono dannatamente alte.
Non vede come tutto si tiene? In Italia, la terra dei mammoni e degli infortuni sul lavoro, abbiamo scelto di aiutare le famiglie e stipendiare i padri; tuteliamo i pensionati e non finanziamo gli studi dei giovani: a questi ultimi non resta che attendere, economizzando le risorse e minimizzando gli sprechi. Il 27enne a 400 euro al mese non esce di casa perché sa che, dietro a tutta la retorica dell’indipendenza dai genitori, sarebbe soltanto un enorme spreco di soldi.
È vero che altrove è diverso. Nell’Europa del nord i figli evacuano a 18 anni. Questo ce lo hanno detto tutti. Quello che non sempre ci hanno detto, è che quasi sempre ricevono generosi aiuti dallo Stato, per lasciare i genitori e metter su famiglia. In quei Paesi, dopo la Mamma e il Papà, i giovani imparano a rispettare lo Stato e le sue leggi anche grazie agli sgravi, ai sussidi, alle borse di studio.
In Italia s’è deciso altrimenti, e non da ieri: è la Famiglia l’unico soggetto che ottiene aiuti. Ci sono motivi storici e culturali per cui è andata così, e forse è inutile lamentarsene. Sta bene: ma è altrettanto inutile prendersela col Mammone, in un Paese in cui gli unici soggetti riconosciuti sono le Mamme e i Papà. Lui ha semplicemente tratto le conseguenze: non si fa romanzi, arrotonda lo stipendio rubando dal frigo materno, e conta di andare tirare ancora avanti a lungo con la pensione di papà. Per quale motivo al mondo non dovrebbe?
E soprattutto, caro Augias, lei crede davvero che se potesse uscire di casa non lo farebbe? Sul serio: pensa che a 27 anni ritirarsi con la ragazza nella cameretta sia divertente?
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Vizi italiani (3): siam vecchi (ma mica fessi)

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Giù le mani dai vecchi!
(Sono una risorsa nazionale...)

Tra un signoramia e l’altro bisognerebbe anche cercare di essere ragionevoli. L’Italia è la nazione più vecchia del mondo, quindi è abbastanza scontato che abbia una delle classi dirigenti più vecchie del mondo. Può non piacere, ma ha un senso. Quindi: ha un senso passare mesi e mesi a scontrarsi a videocamere accese sull’età pensionabile? Sì, un senso ce l'ha eccome: perché per quanto l’argomento possa sembrare poco sexy, è questo che intriga la maggior parte degli italiani: non la guerra in Iraq, non la pena di morte del mondo, non la droga in periferia: la panchina ai giardinetti. Può dare fastidio, ma ha una sua logica strutturale (e se poi, dopo esservi lamentati, andate a vedere i Genesis al Circo Massimo, in fondo siete vecchi dentro anche voi).

Quindi va bene, avanti col dibattito: potrà sembrarvi logorante, ma in fondo è democrazia. Quello che invece non capisco è il concetto di conflitto generazionale; ovvero, lo capisco benissimo, ma non mi convince molto. Gli alfieri dell’innalzamento dell’età pensionabile (Bonino in testa) insistono sul concetto: se continuiamo a sborsare per baby-pensionati di 58 anni, non avremo soldi per le giovani generazioni che ne han tanto bisogno. Ora, magari Bonino & company potrebbero aver ragione. Ma non sono convincenti, e le loro istantanee non ci restituiscono l’immagine del mondo in cui viviamo. Se guardo fuori dalla finestra non vedo nessuna trincea di pensionati, assediata da giovani squattrinati e famelici. Quello che vedo è un sacco di ventenni scapestrati che fanno ancora molto affidamento sulla pensione di mamma e il lavoretto in nero di papà. Insomma il conflitto generazionale, come lo vedono i politici, ha tutta l’aria di una fantasia nata alla buvette di Montecitorio.

Provate a mettervi in un 25enne di oggi (per alcuni di voi non sarà difficile). Da una parte vedete una generazione di pensionati e pensionabili che ha votato il centro-sinistra, ha vinto le elezioni (seppure di striscio), e adesso – giustamente – difende lobbisticamente i suoi interessi. Che non sono i vostri, è chiaro. Dall’altra parte invece chi c’è? Ci sono i giovani? No: ci sono politici che sostengono di voler innalzare l’età pensionabile per risparmiare soldi da… dare ai giovani? In che forma? Sul serio? Ci crediamo?

In pratica, caro 25enne: da una parte hai tuo nonno, dall’altro Emma Bonino o Padoa Schioppa. Di chi ti fidi? A chi lasceresti il malloppo? Io non avrei un dubbio, neanche un po’. Diamoli al nonno, è più probabile che alla fine ti arrivi qualcosa. Conflitto generazionale? Davvero i giovani sarebbero così stupidi da mettersi contro i vecchi, che in Italia sono la maggioranza? No, non ha senso. I giovani, istintivamente furbi, hanno probabilmente capito che in Italia i vecchi vanno utilizzati come una risorsa. Perché sarà vero che non abbiamo petrolio né diamanti, e anche a metano non siamo messi benissimo, ma vecchi pensionati ne produciamo a profusione. E allora sfruttiamoli, no? Del resto, come fa notare Suzukimaruti, funzionano da dio. Sono spesso più produttivi di noialtri. Altro che panchina: continueranno a lavorare per altri 10 anni, salvo che lo faranno in nero. Spendendo poco, perché sono risparmiatori di natura… E secondo voi chi erediterà tutto quanto?

Se io fossi un 25enne, probabilmente farei molto più affidamento sull’eredità del nonno pensionato che sul destino del mio TFR. La mia prospettiva a lungo termine non esclude lo squagliamento delle calotte polari e l’emigrazione nella fertile Terra di Baffin; secondo voi posso avere fede nella sopravvivenza dell’INPS di qui a 40 anni? Inoltre, se avessi 25 anni probabilmente sarei un precario, in attesa che un vecchio vada in pensione per prendere il suo posto. Secondo voi accenderò ceri a Maroni o alla Bonino, che gli innalzano l’età pensionabile? Ma neanche un po’. Io voglio che vada in pensione, anche perché probabilmente è mio nonno, o mia madre, e una volta in pensione potrò lasciarle il bambino il pomeriggio, risparmiando un fracco di soldi su asilo e baby-sitting.

Adesso coraggio, onorevole Bonino, mi dica che i soldi ricavati dallo scalone aveva intenzione di devolvermeli sotto forma di assegni per l’asilo e per il baby-sitting. Su, andiamo, me lo dica, coraggio. Non voleva darli a Montezemolo e ai suoi poveri piccoli imprenditori, vero? Non voleva darli a Pannella per la sua nuova campagna mondiale sui diritti civili, no, no. Voleva darli a me. E io volendo potrei crederle, in fondo ha una faccia abbastanza rassicurante. Invece mi fido più di mio nonno.

Se ne avessi ancora uno. Ma sono morti tutti e due abbastanza presto.
Facevano mestieri usuranti.
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nato ieri

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I misteri di Daniele C.
(Scusi, lei dov'era negli anni Novanta?)

Quest’uomo lo conoscete tutti, o meglio credete di conoscerlo.
Fa politica e fa tv, è stato opinionista nel partito di Chiambretti e segretario politico nel palinsesto di Pannella. Con quest’ultimo di recente ha litigato, ne avrete sentito parlare. Perciò ieri (4 luglio) ha fondato un nuovo partitino Network neoliberale, con poche idee ma molto chiare. È pragmatico, è giovane, sa comunicare, e si guarda in giro, senza preconcetti: centro-sinistra, centro-destra, centro-quel-che-c’è, centro-basta-che-respiri. Quest’uomo è Daniele Capezzone. Voi pensate di conoscerlo, e invece no.

Quest’uomo è un mistero.

Voi sapete quanto sia ricco d’informazioni d’ogni tipo il web 2.0. E forse sapete anche come in questa foresta d’informazioni e comunicazioni più o meno pervasive e spesso inutili, i radicali italiani costituiscano un cespuglietto non grande, ma inestricabile. Nelle italiche boscaglie essi sono riconoscibili da lontano per il fitto intrecciarsi di link e blogroll, per la tendenza a scriversi addosso all’infinito, quasi che temessero di perdersi o scomparire appena mettono punto. Un’ansia che capisco fin troppo bene, ma qui non si parla di me.

Si parla di Capezzone. Anche lui scrive e comunica molto. Ma quasi mai di sé stesso.
In questo non c'è nulla di male, anzi, il saper sfoggiare altri argomenti a parte sé stesso, in generale, è un bene: tuttavia è piuttosto singolare il caso di un uomo politico, pubblico, con un buco di almeno dieci anni nella propria biografia. La sua storia sembra veramente sintetizzabile in questa riga della sua scheda nel sito della Camera dei Deputati: “Liceo classico; segretario del partito radicali italiani”. Di lui si sa con certezza che ha fatto il Liceo – con le suore. Si tramanda anche una battuta ad effetto: “Il problema è che vi sono uscito con il massimo dei voti ed il minimo della fede”. (Sarà per questo che il suo nuovo Network propone di scaricare le rette delle scuole dei preti dalle tasse: non fa una grinza, se i preti insegnanti formano i migliori studenti laici, tanto vale pagare direttamente i preti e chiudere le scuole laiche).
E dopo il Liceo? Nulla: ha incontrato Pannella e tre anni dopo è stato nominato segretario dei Radicali italiani, il più giovane in Italia. Bravo, complimenti, eppure… tutto qui? Possibile che non si trovi nient’altro?

Se Capezzone è del ’72, deve essersi diplomato nel ’91, bombardieri su Bagdad. La sua nomina a segretario dei Radicali è del 2001. Nel mezzo c’è appunto un buco di dieci anni. Dove è stato Capezzone per tutti gli anni ’90? A Roma, probabilmente, ma a fare cosa? A parte presentarsi a Pannella nel 1998, episodio sicuramente importante e decisivo – ma che non deve avergli preso più di una mezza giornata. Ha frequentato Giurisprudenza alla Luiss – senza laurearsi, vabbè. Questo non significa nulla, nemmeno Veltroni è laureato. Nemmeno D’Alema (Berlusconi sì). Ma è possibile che un giovane così dinamico, così pieno di voglia di fare, sempre in giro a rilasciare dichiarazioni, abbia passato dieci anni ad ascoltare Radio Radicale e a studiacchiare legge?

Voglio essere più esplicito: prima di diventare attivista politico e – con uno sprint impressionante – segretario politico nazionale, Capezzone ha mai lavorato in vita sua? Come ha fatto a campare? Non era mica semplice. Non per tutti, almeno.

Il paragone mi viene facile, essendo quasi un suo coetaneo. Io in effetti in quegli anni non sono stato fermo un attimo. Mi sono laureato. Ho fatto il mediatore culturale in Francia col servizio volontario europeo. Poi sono tornato a casa e avevo bisogno di soldi. Ho fatto cose di cui mi vergogno, per esempio intervistavo la gente per strada sui romanzi di rosa (e non biasimo Capezzone se non mette miserie del genere nel suo curriculum). Ho fatto dei corsi, ho lavorato in una specie di dotCom, ho tradotto dei libri. Ho fatto un mega-Concorso statale al termine del quale sono stato assunto dallo Stato, con quasi una trentina di contratti precari in cinque anni. Ho incontrato una ragazza, che ha sciaguratamente accettato di venire a vivere con me, malgrado non avessimo nessuna agevolazione sull’affitto; anzi, lei licenziandosi dal suo lavoro a tempo indeterminato ha perso il suo diritto al sussidio di disoccupazione, in virtù della Legge 30. Anzi, della Legge Biagi. O della Legge-perla, per dirla con Capezzone. L’ha chiamata proprio così: l’unica perla del Governo Berlusconi. La legge 30.

Scusate se per un attimo mi sono paragonato a Capezzone. È chiaro che lui è più bravo di me. Ma quel che provo per lui è un po’ quello che provo per tutti i giovani in politica. Ho la sensazione che abbiano più nozioni di me, ma meno esperienze. Colti, ma nati ieri. Nessuna persona con un po’ di vita vissuta chiamerebbe la legge 30 una “perla”. Nessuno che abbia almeno un cugino, o un amico cocoprò, si permetterebbe. Dicci che è una legge severa, ammortizzabile, dicci quel che vuoi: sei un politico, hai studiato, le parole giuste dovresti conoscerle. Ma non scherzare sui nostri problemi. Non saranno i problemi dei rifugiati in Darfour, ma son problemi.

Lo so che non è giusto prendersela con Capezzone per questo. È vero che l’Italia è piena di politici dal curriculum esclusivamente politico. Rutelli che altro ha fatto in tutta la sua vita? E Fini, e Fassino?
Ma il caso di Capezzone è più curioso, essendo lui un convinto liberale. Non uno alle vongole; lui su questo è serio: vuole tagliare tasse subito, e dare agli imprenditori tutte le ricchezze che si meritano. E se questo significa chiudere il rubinetto al ceto politico, pazienza. In Italia è abbastanza raro vedere queste idee difese da un politico: in effetti di solito gli imprenditori preferiscono difenderle da soli, scendendo direttamente nell’agone politico, come Berlusconi o Montezemolo. Oppure mandare avanti fantocci illetterati, come Bossi o Maroni.

Negli USA è diverso. Laggiù c’è un rispetto tutto particolare per l’intellettuale, e persino gli ultraliberali non vedono nulla di male nel finanziare lobbies di uomini in occhiali e bretelle che passano le giornate a bere caffè in uffici climatizzati, mentre scrivono editoriali su quanto sia prioritario tagliare le tasse ai ricchi. Capezzone è precisamente questo; il problema è che non sta a New York o Washington, ma su un terrazzo di Roma bella. Somiglia a una piccola enclave statunitense in Italia, qualcosa di ancora poco comprensibile.

E allo stesso tempo terribilmente familiare. Capezzone è cresciuto a pane e politica; Pannella lo ha cacciato fuori, e lui che vuoi che faccia? Che altro saprebbe fare? Che altro potrebbe fare, che gli frutti almeno seimila euro al mese? Manco una laurea c’ha, manco il pezzo di carta. Farà un partitino, pardon, un Network. Andrà in tv, pagato da noi, a spiegare che i nostri canali tv vanno svenduti a qualche investitore straniero. Che continuerà a invitarlo in prima serata, si capisce. I miei migliori auguri. Nato appena ieri, e già così tanto più furbo di me.
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forever young, reprise

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Quando non so a cosa pensare, penso a Rutelli.

Qualche tempo fa la Repubblica ha fatto un sondaggio sul leader del Partito Democratico – ho perso il link, ma fidatevi. Veltroni ha preso il 30% e rotti. Il secondo mi pareva fosse Bersani – poi tutta una pletora di personaggi al cinque, al tre, al due. E in fondo, al termine di una coda lunga di uno virgola, Rutelli. Forse perché, alfabeticamente, Rutelli è un po' svantaggiato. Già. Sarà l'alfabeto.

Quando penso a Rutelli, non so bene a cosa pensare.
Di trasformisti ne ho conosciuti, li ho studiati: ai tempi della guerra di Libia Mussolini andava a fermare i treni, Bocca era nel GUF, Ferrara uscì dal PCI dopo una rissa da filopalestinese intransigente. E via e via. Ma Rutelli, ancora relativamente giovane, chissà come mi stupisce di più: veramente uno si chiede cosa si potrà inventare ancora. L'unica ideologia che non ha ancora vagamente costeggiato è il fascismo, e la cosa gli fa onore – ma aspettiamo, non si sa mai.

Badate bene: il trasformismo, in sé, non è un problema. Una persona può cambiare idea. Solo i cretini non le cambiano mai. Il punto è che Rutelli, tutte queste idee, non le veste proprio. Ve lo immaginate, Rutelli verde? Rutelli ai convegni ecologisti? È stato segretario nazionale dei Verdi Arcobaleno. E Rutelli che si fa le canne? Nel periodo radicale fu incarcerato per essersi fatto una canna in corteo. E Rutelli cattolico? Rutelli che va in Chiesa, s'inginocchia, si segna, si batte il cuore al Mea Culpa, ve lo immaginate Rutelli che intona il Gloria? Ecco, appunto. Il physique c'è, ma non è il physique du rôle. Volete mettere, per dire, con un Ferrara? Se una mattina Ferrara si sveglia teocon, come prima cosa si mette a compulsare le encicliche. Si documenta, e poi si atteggia – in fondo è un guitto, il basso del melodramma. Rutelli invece è manichino, alla gente non va giù.

Altrimenti non si spiega questo mistero: dai radicali, con tutte le loro eroiche battaglie, ai teodemocratici, con tutta la loro fede incrollabile nella Vita e in Cristo, passando dai Verdi (che sono quelli che dovrebbero salvare il mondo) e dal Municipio di Roma (che ha amministrato neanche male), Rutelli dovrebbe avere collezionato qualche umana simpatia, o no? E invece no! non lo sopporta nessuno. Ormai è un uomo d'apparato, lui che andava in giro coi cartelli davanti a Montecitorio, lui che augurava il rancio di San Vittore a Bettino Craxi, lui! ormai parla solo a nome dei quadri di partito. Se chiedi all'uomo della strada un leader del PD, a quello gli verrà in mente prima un paio di pelati, come Bersani o Letta, o di donne, come la Finocchiaro e… la Bindi! Persino la Bindi è più popolare di Rutelli. Su un altro sondaggio, di Excite, lo ha sorpassato Scalfarotto, un gay con le orecchie a sventola. Se ci pensate è incredibile. Rutelli in teoria dovrebbe essere quello col fascino.

Quando vi lamentate che ci sono pochi giovani tra gli aspiranti leader del PD, mi viene in mente Rutelli. Cioè niente.
Ma voi c'eravate, nel 2001? Perché io c'ero, e mi ricordo che l'Ulivo schierava contro Berlusconi un leader giovane, fascinoso, carismatico: Rutelli. E perse. Difendendosi bene, però. Ricordo che a quel tempo si parlava di "effetto Rutelli", che aveva avvantaggiato la Margherita rispetto agli altri partiti della coalizione. Si diceva che gli elettori di sinistra fossero già molto più uninominalisti dei loro rappresentanti. Non votavano più per un partito o per una coalizione di partiti, ma per un leader, per una faccia: e magari proprio quella faccia lì, a metà tra Kennedy e Albertone.

A quel punto cos'è successo? Da qualche parte qualcuno avrà spiegato come Rutelli dilapidò il suo capitale di leader dell'opposizione. Io non ricordo bene. Ma mi sembra che al termine dell'investimento emotivo della campagna elettorale, Rutelli smise per sempre di essermi in qualche modo simpatico. Tra Prodi e lui, nessun dubbio. Ne è prova che nessuno valutò mai seriamente una sua candidatura alle Primarie.

Ne è prova l'enorme credito che diamo a Veltroni, un politico che coi DS non ha poi dimostrato tutte queste meraviglie. Porta in dote l'amministrazione del Municipio di Roma, dove non mi pare abbia fatto molto meglio del suo predecessore. E allora cos'è che lo rende così popolare?
Potrò sbagliare, ma secondo me il segreto del successo di Veltroni è il gran vuoto che c'è intorno. Gli elettori volentieri eleggerebbero un leader relativamente giovane, con idee nuove e una cultura del Fare, e siccome non c'è, si arrangiano con Veltroni. Ma in teoria doveva esserci. In teoria doveva essere Rutelli. Più smarcato dai partiti tradizionali, più giovane, più bello. Ma nessuno lo considera più. Che ha combinato?

Qui, se ci riflettete, c'è un errore. Forse noi viviamo in un universo parallelo. Nell'universo in cui le cose vanno secondo logica, l'anziano e rassicurante Prodi è diventato il segretario del rassicurante partito della Margherita, mentre l'ex candidato della coalizione, giovane e rampante, ha continuato a fare il capo della coalizione, forte del suo carisma trasversale. Doveva andare così. Perché non è andata così?

Forse perché Prodi, con quell'aria di fessacchiotto, s'è letteralmente mangiato Rutelli? Nel lungo confronto ai vertici lo ha fiaccato, l'ha svuotato di tutto il suo fascino e l'ha trasformato in un'ameba reazionaria. E Rutelli è stato al gioco. S'è fatto svuotare. Perché? Forse non era abbastanza furbo. Bravo abbastanza per fare carriera coi radicali (capirai). Bravo abbastanza per vincere a Roma. Ma Prodi è su un altro livello.

Questa è dura da mandare giù, lo so. Mi rendo conto che Prodi non ha l'aria di un grande stratega, che sembrava e sembra uno scartino della Prima Repubblica. Tuttavia lo scartino della Prima Repubblica alla fine ha fatto fuori il giovane rampante. Il popolo che premiò la Margherita di Rutelli nel 2001 è solo una parte di quello che plebiscitò Prodi alle primarie del 2005. È un popolo che ha voglia di un leader, questo è sicuro. Se gliene proponi uno, anche usato, lo incorona di buon grado. E l'età non è un fattore importante. Mi dispiace. Non fu decisiva quando Rutelli sfidò Berlusconi, non lo è nemmeno oggi.

***

Quando vi lamentate dei pochi giovani in politica, e mi proponete una lista di giovani in politica, io penso a Diaco. Cioè a poco.
Perché lo conosco poco, davvero, di solito quando arriva cambio stazione o canale. In fondo non ho nulla contro di lui, tranne un'epidermica antipatia, ma nemmeno capisco perché debba dirigere il mio partito.
Qualche sera fa l'ho visto un attimo da Chiambretti: se non sbaglio è riuscito in pochi minuti a esprimere simpatia per Papa Ratzinger ("che non piace a nessuno") e a fare un coming out bisessuale. Cioè, capite, a lui non basta stare simpatico ai gay: deve stare simpatico simultaneamente a donne e uomini, gay ed etero, ma anche al Papa, "che non piace a nessuno"! come no, il problema del Papa è appunto che nessuno lo ascolta, nessuno gli vuole bene. E a quel punto ho cambiato canale, altrimenti faceva in tempo a esprimere ammirazione anche per Bin Laden. Lui stesso avverte che essendo cresciuto senza padre tende a cercarlo dappertutto: va bene, capisco, ma cercane almeno uno alla volta. Non puoi fare il bisessuale e il papaboy simultaneamente, non è serio, e anche se tu ci credi ugualmente non ti crederà nessuno.

Neanche Rutelli era arrivato a quel punto. Forse non ci aveva pensato, forse si sta mordendo le mani dal dispetto. So anche che in seguito Diaco è stato da Biagi a parlare della droga; sono sicuro che ne avrà parlato male, e tuttavia a questo punto non mi fido: secondo me vuole stare simpatico sia a chi si droga, sia a chi ha smesso, sia a chi non si drogherà mai; oltre naturalmente agli omosessuali, agli eterosessuali, ai bisessuali e al Papa. In teoria ormai Diaco dovrebbe essere simpatico a chiunque, in Italia; in realtà non lo regge nessuno. Come si spiega? Credo che sia l'effetto Rutelli: il giovane piacione in Italia non funziona. Tutti questi giovani rampanti che si credono Tony Blair, più in là di tanto non vanno. Se hanno costanza e un po' di fortuna possono anche metter radici in Parlamento, ma il cuore degli italiani è un'altra cosa.

L'obiezione la conosco: anche Berlusconi è un piacione. Come no. Ma lui conosce i suoi limiti. C'è gente che non lo amerà mai, e lui lo sa: li chiama comunisti, li considera coglioni, li disprezza e li provoca. Questo gli italiani lo capiscono, e lo apprezzano. Un politico che ti dà del coglione è la fantasia proibita di ogni democratico: stimola e divide. Rutelli e i simil-rutelli vorrebbero invece piacere a tutti. Appena si apre una nuova categoria sociale, una nuova idea politica, un nuovo genere sessuale, una novità su internet, ci si fiondano, e si mettono a stringere le mani. Ma l'italiano non abbocca. Stringere le mani in Italia non basta. Bisogna anche far gestacci all'avversario. Berlusconi è credibile, perché fa le corna. Prodi già un po' meno. Rutelli e simil-rutelli non s'azzarderebbero mai. Stanno ancora a cercare il padre, e gli anni passano. Datevi pace. Non potete piacere a tutti. In realtà per ora non piacete a nessuno.
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stanateli a brioches

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Se mille euro al mese (in due) vi sembran tanti

Caro Augias,
sto leggendo con molto gusto i servizi di Concita de Gregorio sulla famiglia italiana, pubblicati sul retro della sua rubrica.

Martedì scorso, la sua collega ha coraggiosamente messo il dito sulla piaga purulenta della società italiana: i mammoni, i parassiti, insomma, i figli che non schiodano mai di casa. Le percentuali contenute nel pezzo sono agghiaccianti: in Italia 7 maschi su 10 tra 25 e 29 anni vivono coi genitori. I mammoni spesso hanno un lavoro, eppure non contribuiscono al bilancio famigliare: non puliscono, non fanno la spesa, hanno libero accesso al frigo, insomma protraggono scandalosamente i privilegi dell’infanzia.

Nei carruggi genovesi, la giornalista ha snidato un esemplare di giovane adulto italiano che a 27 anni, malgrado porti a casa uno stipendio (400 euro) e abbia una relazione seria con una “fidanzata”, inspiegabilmente non schioda. Il bilancio della famiglia rimane così tutto sulle povere spalle del padre gruista: 58 anni, 1800 euro al mese “arrotondati con qualche lavoretto” (un bel modo all’antica per dire che prende del nero, ma pazienza).

Caro Augias, non c’è dubbio che un 27enne che si porta la ragazza in casa e chiude a chiave sia qualcosa di squallido; qualcosa di cui dobbiamo cominciare a vergognarci; qualcosa su cui è giusto puntare il dito, come coraggiosamente ha fatto la sua collega. E tuttavia qualcosa non mi torna. Nel pezzo di martedì c’è un’affermazione un po’ curiosa. È scritta in corpo sedici, perché tutti la notino. La de Gregorio scrive che i due giovinastri che passano le serate “in famiglia”…

arrivano a mettere insieme 1000 euro al mese, ma non se la sentono di cercarsi una casa e fare un figlio.
Prego?
arrivano a mettere insieme 1000 euro al mese, ma non se la sentono di cercarsi una casa e fare un figlio.

Caro Augias, francamente non m'intendo molto dei prezzi di Genova. Ma i casi sono due: o è un’isola felice in tutta l’Italia settentrionale (nel qual caso mi ci trasferirò immediatamente con la mia compagna, abbattendo quasi del 50% le mie spese correnti), o c’è un refuso. Perché vede, d’accordo con la mentalità parassitaria e tutto il resto, ma nessuna coppia sana di mente, al giorno d’oggi, si cercherebbe una casa con mille euro al mese. Una casa? Un affitto? O magari un mutuo? E magari anche i mobili, la cucina, il posto
macchina? E dopo tutto questo… un figlio? Pannolini, pappe, culle, vestitini, madre probabilmente licenziata (a 600 euro al mese è difficile credere che il suo contratto la tuteli)?

Metter su famiglia con mille euro al mese… Qui non si tratta di essere poveri ma belli: qui è roba da folli o criminali. Qui dopo tre mesi i servizi sociali ti tolgono il figlio. Come minimo. E fanno bene.

Perché d'accordo, il mammismo è un problema: ma è inutile puntare il dito sul mammone. Lui non fa che incarnare il problema, e tirare a campare. Fingere che dipenda da lui, in un Paese dove qualsiasi buco con servizi costa come una reggia, è nascondersi dietro le cifre: come pretendere che i sanculotti si sfamino a brioches. Per quanto possa ingegnarsi o darsi da fare, il mammone non raggiungerà mai i 1800 euro più nero del padre. Ergo, chi glielo fa fare di crearsi un nido nuovo? Sarebbe persino irresponsabile, da parte sua. Non gli resta che attendere che i suoi vecchi gli smollino la casa, per consunzione. Del resto le probabilità che il padre nei prossimi anni venga colpito da un incidente professionale sono dannatamente alte.

Non vede come tutto si tiene? In Italia, la terra dei mammoni e degli infortuni sul lavoro, abbiamo scelto di aiutare le famiglie e stipendiare i padri; tuteliamo i pensionati e non finanziamo gli studi dei giovani: a questi ultimi non resta che attendere, economizzando le risorse e minimizzando gli sprechi. Il 27enne a 400 euro al mese non esce di casa perché sa che, dietro a tutta la retorica dell’indipendenza dai genitori, sarebbe soltanto un enorme spreco di soldi.

È vero che altrove è diverso. Nell’Europa del nord i figli evacuano a 18 anni. Questo ce lo hanno detto tutti. Quello che non sempre ci hanno detto, è che quasi sempre ricevono generosi aiuti dallo Stato, per lasciare i genitori e metter su famiglia. In quei Paesi, dopo la Mamma e il Papà, i giovani imparano a rispettare lo Stato e le sue leggi anche grazie agli sgravi, ai sussidi, alle borse di studio.

In Italia s’è deciso altrimenti, e non da ieri: è la Famiglia l’unico soggetto che ottiene aiuti. Ci sono motivi storici e culturali per cui è andata così, e forse è inutile lamentarsene. Sta bene: ma è altrettanto inutile prendersela col Mammone, in un Paese in cui gli unici soggetti riconosciuti sono le Mamme e i Papà. Lui ha semplicemente tratto le conseguenze: non si fa romanzi, arrotonda lo stipendio rubando dal frigo materno, e conta di andare tirare ancora avanti a lungo con la pensione di papà. Per quale motivo al mondo non dovrebbe?

E soprattutto, caro Augias, lei crede davvero che se potesse uscire di casa non lo farebbe? Sul serio: pensa che a 27 anni ritirarsi con la ragazza nella cameretta sia divertente?

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"son pieni di energia gli uomini"

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Alzati, Bordone

Anche noi, venerdì, invece di uscire e recarci in qualche covo di snobisti, siamo rimasti sul divano davanti alle Invasioni Barbariche. Così effettivamente non ci è sfuggito lo scoop più controverso dell’anno (il servizio di Matteo Bordone, travestito da Matteo Bordone, che passa un pomeriggio intero in un ipermercato e poi va a non-ballare la salsa).

E non ci è piaciuto. Forse per snobismo antisnobista di ritorno, boh. Ma sicuramente non per antipatia preconcetta nei confronti di Bordone, tutt’altro. Di tutto si potrebbe accusare la mia coinquilina, salvo di antipatia preconcetta nei suoi confronti. E tuttavia avreste dovuto vedere la tristezza nei suoi occhi.

Allora: ci sarà in giro chi odia Bordone per motivi suoi e ha voglia di parlarne male: ma forse c’è anche chi c’è rimasto male perché Bordone in radio e altrove sembra molto, molto più simpatico di quello andato in onda venerdì. Una simpatia che nel servizio non c’era più: annullata. La tv ha masticato Bordone e ha risputato l’ennesimo snob-demofobo alla Zecchi. Non doveva finire così.

Poi, per un colmo di snobismo, ha iniziato a pioverci in casa. Quando ho riattaccato il PC, ho visto che ne avevano già parlato tutti. A questo punto che faccio? Sono più snob se mi attacco anch’io, o se faccio finta di niente?


Ho finto di essere un laureando di scienze della comunincazzone e mi sono brevemente rivisto il servizio (via macchia), cercando di capire cos’è che rendeva Bordone così irritante. Il montaggio? Le luci? La fotografia? No, direi che è tutto ok. Ma sin dalle prime riprese è chiaro un fatto: non c’aveva voglia. Certo, sempre meglio che simulare finti entusiasmi. Ma per tre minuti il personaggio barbuto non fa che spostarsi da una poltrona a una panchina, sembra invecchiato di 30 anni. A un certo punto prova anche un divano automassaggiante e dice che sembra di stare sull’intercity (un treno da snob: ma anche i regionali non vibrano mica male). “A fine serata sono stravolto” dirà alla fine. Guarda, senza acrimonia ti giuro: sembravi stravolto da subito. Il servizio funziona male soprattutto perché non c’è trama: il personaggio nasce stanco e stanco muore. Ma la gente in tv vuole colpi di scena.

E poi vuole che tu faccia il primo passo. Cioè, lo sappiamo tutti benissimo che 6 ore in un centro commerciale sono da ricovero, ma almeno la prima mezz’ora ci devi provare. Devi prendere in mano un oggetto che ti piace. Solidarizzare col vecchietto o la commessa. E se ti chiedono un ballo, porco cane, devi ballare. Nella sua replica, Bordone cita il Battiato di E ti vengo a cercare,
e attraverso Battiato (non so quanto consciamente), Nanni Moretti: l’archetipo dello snob barbuto italiano. Moretti è molto, molto più irritante di quanto Bordone potrà mai essere; eppure Moretti non si è mai negato il primo passo. Ci prova sempre. Se c’è da ballare, Moretti balla. In un campo da calcio si gioca a pallone. In un caffè si chiacchiera. Sulla spiaggia, ci si bacia. Poi finisce sempre male, ma Moretti ci prova. Prima d’esser buttato fuori.

Gratta gratta, il meccanismo è lo stesso dei grandi film di Chaplin: nel labirinto disumano della città moderna il Vagabondo prova qualunque mestiere, qualunque esperienza di vita. Non è mai a suo agio, ma riesce sempre a regalare all’ambiente qualcosa di originale. E tutto, per un attimo, funziona: finché non arriva qualcuno a dire che non si può stare lì. Ai tempi di Chaplin era un poliziotto-con-sfollagente. Moretti di solito si fa cacciar via da qualche "persona normale". La banalità della prepotenza.

Io credo che la modernità debba essere esplorata con un po’ più di energia, di coraggio, al modo in cui lo faceva il Vagabondo: è un centro commerciale disumano in cui scavarti la tua nicchia, consapevole che l’estraneo, il poliziotto, la pioggia dai tegoli, può portarti via tutto in poche ore. Puoi lavorarci, ma puoi anche nasconderti, pattinarci, giocarci. Dopodiché capita anche a me di addormentarmi in piedi, se accompagno qualcuno lungo certe rotte dello shopping. E allora metto su una musichetta interna, uno di quei pezzi da pianoforte che accompagnavano i film muti. E guardo in camera e tiro avanti. Qualcuno, da qualche parte, ride di me: è una cosa che a volte consola.

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I can stand the sight of worms

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Io sono un figlio del mio tempo, e il mio tempo è quel che è.
L'Etiopia invade la Somalia, e ci sbadiglio. Ammazzano un ex tiranno, e che problema c'è. Bombe a Bangkok, vabbè succede. E l'Eta, l'Eta, non sarà l'Eta a farmi commuovere. Ah no. Perché sono un figlio del mio tempo.

Ma non fatemi rivedere Dumbo.



Dumbo è veramente troppo per me.
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- campioni

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Una vita da Gattuso

I meri fatti sono questi: Zidane ha perso la testa e Trezeguet ha preso una traversa.
Il risultato, indiscutibile, e' che siamo Campioni del Mondo. Tutti cinquanta milioni e rotti quanti siamo. Campioni. Ce lo meritiamo? Non troppo. Lo meritavano i francesi? Men che meno. C'era il rigore? No (ma ce n'era un altro nel secondo tempo). C'era il fuorigioco sul gol annullato? Non lo so, qui tutti hanno urlato e non si e' capito niente.
Cos'ha detto Materazzi a Zidane? In francese si dice provo'. Se la pazzia di Zidane potra' insegnare a milioni di piccole pesti francesi a non reagire alle provo', tanto meglio. Noi dopo Baggio abbiamo imparato a tirare i rigori.

Antropologia spicciola: i francesi (studenti) urlano piu' degli italiani, ma urlano solo nei momenti piu' intensi. Hanno un Dio: Zizou. E vari idoli: Henry, Barthez, e via scendendo. Quando Zizou impazzisce, restano gelati. Non glielo perdoneranno mai. Ancora tra quarant'anni spiegheranno ai loro figli che la finale l'ha persa lui.
(Non e' cosi' vero.
Negli ultimi dieci minuti, con un uomo in piu', il centrocampo italiano non riusciva a spingere. Ma la difesa teneva. Zidane avrebbe pascolato fino al 120', e poi avrebbe segnato il suo bel rigore. Ma Trezeguet avrebbe preso la traversa ugualmente).

Per contro, gli italiani commentano le azioni. Non hanno nessun Dio a cui raccomandarsi, ma soltanto calciatori che potrebbero sempre dare un po' di piu'. Dai Zambrotta, dai Gattuso, spingi Pirlo, non far cazzate Materazzi, e dove cazzo e' Totti, e' sceso in campo o no? La nazionale si critica fino all'ultimo minuto secondo.

Questo forse manca ai francesi: un po' di sano senso critico. Zidane ne avrebbe avuto bisogno. Ma e' antropologia da due soldi.

Come ci si sente a vincere per un soffio, all'ultimo minuto, lo sappiamo gia'. Di sicuro avremmo preferito vincere come i nostri genitori. Tre botte al Brasile, due alla Polonia, tre alla Germania. Quella era gente seria. Noi siamo quelli che siamo, e si sa.
Siamo, per dirla con una parola che vuol dir tutto e niente, berlusconiani. Dove "Berlusconi" ormai e' un concetto che col povero S. B. non ha niente a che fare. Ma il tormentone di quest'anno, dal Caimano in poi, e' stato questo: Berlusconi ha vinto, siamo tutti figli suoi.

Siamo immaturi e un po' ignoranti. Tatuati e pasticcioni. Abbiamo prosperato in un clima moralmente discutibile, dove gli arbitri finivano chiusi negli spogliatoi e noi credevamo che fosse ok. Abbiamo peccato di parole, di opere, e soprattutto di omissioni. Ci sarebbe piaciuto essere persone piu' serie, ma alla fine non siamo altro che noi.

D'altro canto, non siamo necessariamente peggio degli altri. E siccome saremo ancora noi, per molti anni, tantovale farvelo vedere: se c'e' bisogno lottiamo, su ogni pallone, se c'e' bisogno mandiamo a casa i padroni di casa, e neanche gli armadi d'ebano francesi ci fanno paura.
Non siamo Dei, siamo terzinacci. Ma neanche voi siete Dei, mettetevelo in testa. Noi siamo campioni perche' non crediamo piu' a nessun intervento divino, di manager o arbitro o centravanti miracolato. Crediamo solo in noi stessi, e anche poco.

C'e' questa vecchia idea asfissiante, questa riduzione della Storia d'Italia ai minimi termini, per cui gli anni di piombo finiscono al Santiago Bernabeu. Di vero c'e' questo: negli anni Ottanta ci siamo tutti un po' montati la testa. Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre capacita', e stiamo ancora pagando.

Succedera' di nuovo? Io spero di no. Vorrei che questa vittoria avesse un sapore diverso. Il riscatto per una generazione che ha fatto melina per troppo tempo. Che viveva di illusioni e rimediava solo figuracce (2002 e 2004).
E' una generazione che non mi sta simpatica, ma alla fine e' la mia. Sono io. Non posso mica inventarmi diverso da quel che sono. Sono come tutti voi, uno che e' cresciuto un po' troppo lentamente. In ogni caso sono cresciuto, e adesso si tratta di farvela vedere. Si tratta di lavorare, tutto qua. Non c'e' nessun regista miracoloso a cui passar la palla. Da qui in poi stacco, senno' divento Ligabue.
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- meditazioni davanti al bicchiere mezzo vuoto, 2

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La questione non generazionale

La mia generazione mi fa senso, non ho nessuna voglia di vedere i miei coetanei al potere, e quando ci andranno non avrò nessuna fiducia in loro. Spero che sia tardi e che abbiano messo giudizio, nel frattempo. Naturalmente sto generalizzando, ogni tanto mi piace, è liberatorio. Fatelo anche voi.

La questione generazionale è semplicemente la lotta di ogni generazione per affermarsi su quella di papà. Se noialtri facciamo fatica a imporci è per tutta una serie di congiunture storiche, sociali ed economiche, oltre al fatto che siamo degli smidollati; volendo essere più sottili, ci sono congiunture storiche, sociali ed economiche che hanno spinto i nostri padri a crescerci da smidollati, e se stessimo giocando a "di chi è la colpa?" avremmo già risolto. Purtroppo invece si gioca a "chi paga?" Le colpe dei padri ricadono sui figli, sta scritto sulla Bibbia. Gesù non era d'accordo? Sta bene, è a verbale.

La questione generazionale ha padri non proprio nobili. Filippo Tommaso Marinetti, il fascista più geniale e più stupido (ruppe con Mussolini alla vigilia della Marcia su Roma, rientrò qualche anno dopo con la coda tra le gambe) proponeva di sostituire il Senato con un Eccitatorio composto da soli giovani. Faccio notare che se la Costituzione l'avesse modificata Marinetti, invece che Calderoli, oggi l'Unione governerebbe alla grande, senza un Senato di barbogi col diritto di veto.

Nella Storia ci sono state gerontocrazie ed eccitatori, grandi potenze dirette da senatori barbogi e Imperi in mano a ragazzini. L'importante non è che siano giovani o vecchi, ma che muoiano presto. Questo è il segreto di un buon governo: avere pochi anni davanti, e poi morire, possibilmente senza lasciare eredi. Ed ecco che di colpo non c'è più nessun conflitto d'interessi, tutti si scoprono statisti, tutti vogliono lasciare un bel ricordo per lapidi e statue, persino Sharon voleva essere il padre della pace. Ben vengano i giovani, insomma, a patto che muoiano alla svelta. Ecco, se invece di Calderoli o Marinetti ci fossi io, proporrei questo: governo di soli cinquantenni, a 55 li facciamo senatori a vita e a 60 li ammazziamo. Credo che a quel punto la carriera politica sarebbe appannaggio di chi sente davvero la vocazione, di chi non ha più interessi a questo mondo. Un governo di santi. Scusate, ogni tanto ho fantasie radicali e violentissime, voi no? Avete dei problemi, riguardatevi.

La questione generazionale è un falso problema. In Italia ci sono un sacco di vecchi, è giusto che governino: se almeno lo facessero da vecchi, con saggezza e senza avidità di beni terreni che non potranno portare con sé. E invece abbiamo vegliardi che governano da ragazzini, avidi e irresponsabili, e ora ci siamo messi in testa che l'antidoto è gente come Scalfarotto, giovani seri, posati e come dei vecchi. Posso capirlo, ma è innaturale. Anche nel giornalismo: Giuliano Ferrara dovrebbe darsi un contegno e Luca Sofri sbracarsi un po'. Per fare un esempio.

Il problema non è l'età anagrafica: ci sono persone anagraficamente non anziane (D'Alema, Fini) che sono politicamente decrepite. Perché sono le stesse facce per cui ci sgolavamo al liceo 15 anni fa: un po' più grigie e bolse, ma sono le stesse. Lo stesso Berlusconi, quand'è che la pianta con questa storia del non professionismo? E' da 12 anni che non fa altro che politica, anche quando polemizza con Ancellotti sembra a un comizio elettorale.

I giovani danno un altro problema: che se poi ci arrivano, al potere, non schiodano più. Uno stronzo anziano almeno è anziano. Ma Capezzone, quando ce lo leviamo di torno? Forse mai. La mia generazione rischia seriamente di invecchiare e morire a braccetto con questo nerd che ci spiega che non capiamo nulla sugli embrioni e sulla guerra al Terrore, che se solo la TV lo inquadrasse di più... uno disposto a mandare mezza Italia al massacro in un referendum suicida per il gusto di ergersi a difensore dell'aborto e della staminale, uno che quando crolla il governo risorge nell'altro schieramento, uno che alla sua tenerà età è già più antipatico di Rutelli adesso, e quando avrà l'età di Rutelli? E per allora ci sarà un altro partito clerical-moderato da dargli in mano? Difficile. Occorrerebbe schiodare Rutelli. Vedete? Giriamo sempre intorno allo stesso problema.

Non è una questione generazionale. E' una questione umana. Abbiamo la stessa classe dirigente da 15 anni, e in questi 15 anni era statisticamente impossibile che questi signori, sotto le telecamere in media una volta la settimana, non facessero qualcosa di brutto, qualcosa che ce li ha resi, prima o poi, antipatici e quasi invotabili. E' come il Grande fratello, ma dura da 15 anni. E non eliminano mai nessuno. E non si può cambiare canale. E' un format a metà tra il Grande Fratello e l'inferno dantesco, in effetti.

Per dire, io non ce la faccio a votare D'Alema. Non ho moltissimo contro le idee di D'Alema, ma a questo punto non lo considero più affidabile. E' relativamente giovane, ma per me è un vecchio matto che non sa vivere senza un sondaggio (senza averne mai azzeccato uno, il che statisticamente non cessa di sbigottirmi). Certo, mi rendo conto, a questo punto non ha senso chiedere a D'Alema di non pagare più sondaggi, è più o meno come convincere un eroinomane a smetterla. (Ma chi continua a offrire sondaggi a D'Alema ha la stessa moralità di chi offre uno schizzo a un metadonizzato).

Vi ricordate i test on line che si facevano prima del voto? Dovevi rispondere a domande sul programma, e poi il software ti diceva che partito avresti dovuto votare. Ebbene, il test non funzionava mai. Perché il problema non è il programma, chi se ne frega del programma, il problema sono le facce. Io per certe facce non posso più votare, per certe altre non voterei mai (secondo il test dovevo votare Capezzone). Non sono necessariamente facce vecchie. Ma sono politicamente consumate. Dovrebbero cambiare mestiere, ma esiste un mestiere per i post-politici?

Ai vecchi tempi dell'Impero (quello romano), i consoli che avevano esaurito il cursus honorum li mandavano a ingrassarsi nelle provincie. Ecco. Ci vorrebbero provincie appena conquistate, da pacificare e spremere. Fini e D'Alema a Nassiryia, a pattugliare i pozzi e lucrare sulle commesse ENI. Scusate, ogni tanto ho fantasie coloniali, ma non do fastidio a nessuno. Do fastidio a voi? Potevate evitare di leggere fin qui sotto, scusate.
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- big jim bites the dust

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Mi chiamo Leonardo, ho 32 anni, e non vi odio più

La prima cosa che mi viene in mente, davanti al nuovo libro di Aldo Nove (Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese) è: che titolo triiiste, non lo venderanno mai.
Si tratta naturalmente di un'impressione sbagliata. All'Einaudi-Stile-Libero sanno il fatto loro.

E poi andiamo, non si è ancora capito? La lagna tira. Non facciamo che lamentarci di quanto poco guadagniamo. I nostri padri esploravano i mondi artificiali, e noi sappiamo solo prendercela perché ci aumentano l'affitto e la benzina, e ci rinnovano il contratto (forse) ogni due mesi. Non sappiamo vedere più in là. Generazione gretta e venale.

Del resto io, se non si è ancora capito, la mia generazione l'ho odiata, sin dalle elementari, sin dalle prime pubblicità Mattel che interrompevano i cartoni animati su Telesanterno. Odiavo la bimbetta bionda che si circondava di miniaccessori di plastica rosa fluorescente. Odiavo anche la sua versione con autopista e big jim. Con l'autopista ci ho giocato e credo persino col big jim, ma i ragazzini viziati e leccati delle pubblicità li ho odiati di un odio viscerale, etnico. Il consumismo mi stava sulle palle molto prima di aver mai sentito la parola "consumismo", e forse anche la parola "palle". Non so il perché. Forse è semplicemente genetico: c'è una percentuale di persone che nasce refrattaria allo shopping. Non vi resta che sterminarci – o smettere di riprodurvi con noi – ma non è facile, perché siamo rudi e tenebrosi.

Un altro picco di odio l'ho avuto da matricola universitaria. Credo che avesse a che fare con le tare congenite dell'università di massa – lezioni oceaniche e vacue, sedersi sui gradini, le orazioni dei ciellini e i bonghi dei pancabbestia, vaffanculo, morite tutti, e dire che ho fatto pure due occupazioni. La cosa incredibile è che nello stesso periodo c'erano scrittori – più o meno della stessa mia età o anche più giovani – che scrivevano di questa università di massa oceanica e vacua e andavano forte, erano la nuvelvàg della letteratura italiana, e io li odiavo; senz'altro c'era invidia perché da un mondo così grigio sapevano tirarci fuori storie vendibili, e uscivano con ragazze più carine delle mie, ma c'era anche quel problema genetico di cui sopra.
In realtà non è così vero che li odiassi, suvvia. Erano ragazzi come me, evidentemente più bravi di me, che non se la tiravano nemmeno tanto. Quello che non sopportavo ero i loro lettori. Sia quelli più giovani, che vedevano mondi meravigliosi e cannibalismo selvaggio dove c'era soltanto un po' di sfiga medioborghese; sia i più vecchi. I vecchi. I vecchi che leggono gli scrittori giovani e s'informano. Sugli usi e sui costumi. I vecchi che vogliono sapere la musica che ascoltiamo, le sostanza che assumiamo, e soprattutto se scopiamo. Io ho odiato la mia generazione, soprattutto quando pubblicava i suoi diari e ammiccava lubrica alle altre generazioni bavose. Sì, era pieno di p e d e r a s t i in giro, ma se andate in giro conciati in quel modo ve la state cercando.

Dieci anni fa apriva Einaudi-Stile-Libero, con un libro che ho odiato intensamente, ai tempi suoi. Era un reportage sulle camerette dei ragazzini. Le camerette. Dei ragazzini. Che invece di uscire di casa restano in famiglia e si fanno la cameretta. E si sa che gli adulti ne vanno matti, per queste cose. Gli adulti vogliono sapere come si chiama il cantante del poster. Vogliono eccitarsi davanti alla tua originalissima collezione di CD. Non vedono l'ora di sfogliarti la smemoranda e andare in deliquio davanti alle foto dell'interrail dell'estate scorsa – quando dovevate girarvi tutta la Francia la Germania e invece vi siete piantati quindici giorni in un campeggio ad Amsterdam. (io comunque amavo immaginare che sull'armadio ci fosse ancora il vecchio big jim, o qualche accessorio in plastica rosa, perché non vedevo nessuna vera soluzione di continuità tra la vostra infanzia di plastica e la vostra adolescenza: la cameretta era la stessa, e voi eravate gli stessi, solo con qualche smorfia in più). Il ggiovanilismo, il lolitismo, l'ipocrisia melliflua di chiamare Fuori tutti un libro che invece invitava tutti dentro la propria vita privata… vi ho odiato, maledetti, non ve l'ho detto perché nelle camerette delle vostre sorelle cercavo spesso di entrarci, ma vi disprezzavo. No, non avevo nessun piedistallo da cui disprezzarvi, lo facevo e basta. Ero giovane anch'io, va bene?

Ci pensavo l'altro giorno e mi chiedevo: chissà che fine hanno fatto, quei ragazzini. Se in media avevano sedici anni, quando posavano aprivano il loro sancta sanctorum giovanile ai vecchi curiosi, adesso in media ne hanno ventisei; in qualsiasi altra nazione occidentale avrebbero finalmente lasciato la loro cameretta, ma sarebbero ancora i protagonisti assoluti dello spettacolo del consumo, il target più ambito perché è quello che compra di più.
In qualsiasi altra nazione occidentale, ma in Italia no. Da noi la generazione più consumista è quella over 35. Sono loro che si divertono a comprare l'Ipod nuovo ogni volta che ne lanciano uno. Sono loro a spassarsela con l'high tech e la parabola. Invece il ventiseienne-tipo, oggi, è il più delle volte un neolaureato nel panico, che scopre con angoscia di essere stato sovraqualificato: vale a dire che il mondo del lavoro aveva bisogno di persone meno laureate di lui, da pagare meno e da mandare a casa ogni due mesi.

Il mondo cambia. E Stile-Libero si adegua. Dieci anni fa s'invitava nella vostra cameretta, adesso viene a misurarvi il monolocale. Dieci anni fa vi chiedeva la boy band preferita. Adesso s'informa su quanto prendete in busta. Certo, se ha 40 anni, Roberta non può aver posato per Fuori tutti. Ma mi piace pensare che tra le persone intervistate da Aldo Nove ci sia anche qualche reduce del libro di dieci anni fa. E mentre lo penso, dovrei provare un gusto sadico. Perché continuate a sembrarmi di plastica come i vostri giocattoli – vent'anni fa vi vendevano bambole, dieci anni fa scrittori giovanilisti e cannibali, poi c'è stato il revival della plastica anni Ottanta (vi hanno rivenduto gli stessi giocattoli usati, a prezzo maggiorato) e adesso siete pronti per l'industria culturale della lagna. E quindi io dovrei detestarvi, sono nato per farlo. Programmato per farlo.

Ma qualcosa non va – ieri sera per esempio in tv ho visto Aldo Nove, con quelle borse sotto gli occhi, così terribilmente adulto – e pensate un po? mi stava simpatico. E pure voi, con le vostre lagne, e il parlar sempre di affitti e banche che non ti fanno il mutuo – non vi ho mai voluto tanto bene come adesso. Vorrei venirvi a trovare in tutti i vostri monolocali, fare la pipì in tutti i servizi delle vostre mansarde-con-servizi.
Non vi odio più, questa è la verità. Sì, c'è stato un tempo in cui vi ho odiato, vi ho amato; ma adesso stiamo semplicemente invecchiando assieme.
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- la città delle crepe

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Da venerdì è riaperta la Tenda, il locale all'incrocio di viale Molza e Monte Kosica che scuoterà dalle fondamenta la vita notturna modenese e non solo. La redazione di Leonardo ci andrà spesso, e consiglia a tutti di consultare il programma (non appena sarà disponibile) e farci un salto. Oggi e domani, per esempio, c'è un incontro su Pier Vittorio Tondelli nel cinquantenario della nascita, con testimonianze, interviste inedite e racconti a cura di Enos Rota ed Ennio Trinelli.

Il pezzo che segue non c'entra niente, è una serie di frasi senza senso.


4 domande

Uno passa una mezza vita a combattere contro il concetto astratto e stucchevole di "generazione" –
– finché non si arrende: è proprio così. Siamo nati tutti nello stesso momento (più o meno una trentina di anni fa) e continuiamo più o meno a trovarci negli stessi luoghi. Se esiste altra gente (dovrà pur esistere) si muove in posti e in orari che non frequentiamo. Non frequentandoli, difficilmente riusciremo a riprodurci con loro. Continueremo a stare tra noi, e quando faremo dei figli, li faremo nello stesso momento (il che sta accadendo).
Certo, in trent'anni sono cambiati un poco i luoghi, l'abbigliamento, e (grazie al cielo) gli argomenti.

Dieci anni fa le domande erano: "cosa studi" e "che musica ascolti".

Si trattava di quesiti identitari: volevamo sapere chi eravamo. Chi ci preparavamo a diventare ("cosa studi?") e, nel frattempo, che stile di vita stavamo abbracciando (apprezzate l'economia del quesito: "che musica ascolti". Non hai bisogno di dirmi in che tipo di locale vai, come ti vesti, se ti piace o no ballare e cosa: se ti piacciono gli U2 ho già capito tutto questo e anche di più. La condivisione dei gusti musicali è l'equivalente umano dell'annusarsi canino).

Lentamente, ci siamo spostati al "ti stai laureando? / ti sei già laureato?"

Una domanda già un po' minacciosa. Dopo aver capito più o meno chi eravamo, e che musica ascoltavamo, abbiamo iniziato a sospettare che ci fosse gara tra noi. Per cui: come stai andando? Sei davanti a me o dietro? Non è necessariamente competitività o invidia. Si trattava anche di capire dove sono io: la mia posizione. Perché i sorpassi esistono, è inutile far finta di niente. Gente che fino a qualche tempo fa ti stava dietro, improvvisamente te li trovi che ti danno le spalle. Il minimo è fargli i complimenti. E si passano degli anni così, a fare complimenti e a incassarne. È un quadretto stucchevole, perché di solito chi fa i complimenti è sinceramente ammirato, sinceramente invidioso, sinceramente angosciato: e tutta questa invidia e ammirazione e angoscia va a sbattere contro un neolaureato (magari pure neoimpiegato) che fa spallucce. Come se laurearsi fosse la cosa più semplice del mondo.
Il problema è che è vero: laurearsi è la cosa più semplice del mondo. Quello che per il suo inseguitore sembra il traguardo della vita (cui seguiranno mesi di bisbocce e viaggi per il mondo) era solo una mediocre tappa di trasferimento, e il neolaureato lo sa. Lui sta già chiedendo a qualcun altro:

"Che lavoro fai / Dove abiti adesso?"

In realtà non siamo quella generazione di mammoni sfigati che qualcuno pensa: non è che fino alla laurea siamo tutti restati a casa dei genitori senza fare altro che studiare. Ma per molto tempo il domicilio e il lavoretto non sono stati veri argomenti di discussione. Non dicevano davvero nulla sulla nostra identità, e nemmeno sulla nostra posizione. Erano simpatici diversivi. Poi ti laurei e ti accorgi che la vita è tutta lì: un ufficio e un bilocale. A chi va bene. E a nessuno frega più di quel che ascolti in cuffia.
A quel punto – che per molti è coinciso con l'inizio di una fase critica della storia dell'umanità (l'11 settembre, il Berlusconi-bis, l'Euro, la Cina nel WTO, la crisi strutturale della piccola economia italiana, l'islamofobia dilagante ecc. ecc.) – a questo punto in città hanno iniziato ad aprirsi dei solchi.
In un primo tempo sembravano solo corrugamenti dell'asfalto, quel tipo di cose che fanno le radici degli alberi. Ma nessuno veniva a riasfaltare. E i solchi sono diventati crepe, e le crepe sono diventate profonde, e chi più chi meno ci siamo tutti cascati dentro; e siccome non siamo persone molto tragiche, siccome siamo cresciuti in anni di operetta, e la commedia ce l'abbiamo nel sangue, cosa si pretendeva che facessimo? Ci siamo semplicemente adoperati a rendere questa crepe più confortevoli. Ci abbiamo portato la nostra musica, la pergamena della nostra laurea, il nostro CV con tutti i lavoretti, e il contratto di affitto, e abbiamo fatto il possibile per non trovarci male, nella crepa.
Addirittura ogni tanto ancora usciamo – specie quando torna la bella stagione, e apre un posto nuovo. Nominalmente, si tratta ancora di uno spazio aggregativo "giovanile". Ma la domanda che gira non è più molto giovanile, infatti è:

"Che fine hai fatto?"
Che domanda è. Sono andato a stare in una crepa di fianco alla tua. Non si sta male, non mi lamento. Ovvero sì, potrei lamentarmi all'infinito, ma che senso ha. Era una bella giornata e siamo usciti, adesso non tiriamoci giù da soli con le nostre domande stupide. Piuttosto: che musica ascolti, adesso? Che mestiere fai? Abiti sempre lì? Ti sposi? Ma certo che vengo, ci mancherebbe altro. Aspettate un bambino? Che bello.
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- generazione di fenomeni, 2

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(Prossimamente, penso che scriverò roba più leggera).

Ma sul serio: se io sono veramente ateo, se credo che Dio sia una semplice impostura, come posso sopportare che miliardi di persone intorno a me vivano in questa impostura? Come posso 'tollerare' una menzogna così diffusa e capillare? No, non posso. Devo gridare ai quattro venti che Dio non c'è. Ma allora la mia condizione non è molto diversa da quella di chi crede che un Dio ci sia, uno o trino, o senza volto, o con la proboscide, e che parimenti non può tollerare di avere la verità rivelata in esclusiva: deve gridarla ai quattro venti. Davvero dovrei stare zitto e "tollerare" che gli impostori e gli ingenui intorno a me urlino qualcosa che ritengo sbagliata?

Le risposte che accludo valgono solo per me – tra l'altro, adesso che mi viene in mente, io non sono ateo. Ma cambia poco.

Perché non posso non rispettare le religioni degli altri (anche se sotto-sotto mi sembrano coglionate)

1) Perché non convincerò mai nessuno ostentando la superiorità delle mie ragioni e umiliando le sue – come ben sa chi ha un blog. È mai servito a qualcosa scrivere che Berlusconi è un pagliaccio, e chi lo vota è un fesso? Allo stesso modo, l'approccio "Dio non esiste, smetti di crederci, coglione" non funziona. Dio, come Berlusconi, si sconfigge seminando pazientemente dubbi in chi ci crede. Ma per seminare occorre tempo e serenità. Occorre ostentare rispetto per l'avversario mentre si avvelenano i suoi pozzi. Occorre essere semplici come colombe e astuti come serpi (buona, questa. Dove l'ho già sentita?)

2) Perché non posso convertire tutti. Semplicemente. Il mondo non può permettersi sei miliardi di atei. Se l'ateismo è quello che intendo – un ateismo rigoroso, razionale, scientifico – dobbiamo ammettere che esso è destinato a rimanere ancora a lungo un lusso. Un appannaggio delle élites. Mi rendo conto di dire una cosa antipatica.
Per Marx la religione era il noto oppio dei popoli. Ma i popoli erano destinati a liberarsi e a impadronirsi dei mezzi di produzione: una prospettiva di fronte alla quale l'oppiomania appariva come un palliativo inutile e dannoso. Perché perder tempo in paradisi artificiali quando il Sol dell'Avvenire sta apparendo all'orizzonte? Non c'è bisogno di spiegare che la nostra prospettiva è molto diversa.

Noi sappiamo che la Storia non ci sta preparando nessuna rapida palingenesi. Sappiamo che la scienza, la medicina e l'economia, con tutti i loro progressi, non riescono a impedire che miliardi di persone vivano male: al punto che c'è forse più sofferenza umana sulla terra oggi di quanta ce ne sia mai stata in passato.
Sappiamo che di fronte al dolore la scienza è troppo spesso impotente. Viviamo in un'epoca di diagnosi rigorose e cure imperfette. La nostra scienza funziona benissimo quando deve spiegarci di che malattia stiamo soffrendo, o perché il nostro Paese è in recessione. Funziona assai peggio come erogatrice di speranze. A tutt'oggi non ci sono ricette per gran parte dei mali che ci affliggono, fisici e morali. Forse vale la pena di guardare all'oppio con un occhio diverso.

Le grandi religioni, quelle che azzerano il calendario, si sono sempre affermate in periodi di crisi simili a questo. Prendiamo il cristianesimo: se ha avuto lo straordinario successo che sappiamo, è perché ha individuato un "mercato" che nessun prodotto era più in grado di soddisfare. Il mercato della sofferenza e della disperazione – e quando dico "mercato", non parlo per metafore. Dal III secolo in poi, le comunità cristiane hanno portato alla luce un soggetto economico che prima non esisteva: il bisognoso. In un mondo che ignorava (oltre che la luce elettrica e la penicillina) qualsiasi forma di Welfare State, i cristiani iniziarono a raccogliere fondi con lo scopo di destinarli a vedove, orfani, perseguitati, poveri. In seno allo Stato militare (che tassava i cittadini ormai quasi esclusivamente per mantenere burocrazia ed esercito), nasceva un'idea di Stato assistenziale. Non è curioso che la fratellanza musulmana (che in Palestina si chiama Hamas) sia nata e cresciuta nei Paesi arabi nella stessa maniera? La fratellanza sostituisce (male) l'assistenza sociale in Paesi in cui i poveri sono abbandonati a loro stessi. Tutto questo è giusto? No. Ma tutto questo può essere cambiato rapidamente?

Se io sono ateo, forse è perché me lo posso permettere. Ho un buon lavoro, che dà un senso a parte della mia vita; e una famiglia abbastanza confortevole. Se soffro di qualcosa, posso acquistare le medicine che mi servono. Posso anche investire parte della mia vita e dei miei guadagni in divertimenti. Insomma, non ho così bisogno di Dio. Così sono ateo. Perché sono più intelligente di altri? O perché sono un privilegiato?
E a chi non è altrettanto fortunato – o intelligente – cos'ho da proporre? Posso garantire un lavoro a tutti i poveri della terra? Una famiglia confortevole? Medicine a prezzi equi? Divertimento occidentale? No, non posso. Se sto bloccando le frontiere, è evidente che non ci sono abbastanza risorse per tutti. Ma allora, cosa ho da proporre ai poveri della terra, di meglio del caro-vecchio-oppio-dei-popoli?

3) Tutto questo, gli impresari delle religioni lo sanno. Dirigono onorate società che stanno sul mercato da migliaia di anni. Si vede che in qualche modo funzionano. Non meritano rispetto, almeno per questo? Vendono una cosa di cui c'è un gran bisogno: la speranza. Poi magari alla fine si scopre che è un pacco – ma per ora non c'è molto di meglio sul mercato. So che è un discorso antipatico.
So che dovrei proporre un orizzonte diverso, in cui tutti ci ribelliamo all'oppio e alle false credenze, e ci diamo da fare per costruire non già un mondo migliore, ma la speranza di un mondo migliore. Purtroppo, se devo essere onesto, non mi sembra di vivere così.
Mi sembra di vivere in un regime di moderata disperazione, che curo con quello che trovo sul mercato occidentale: qualche soddisfazione sul lavoro, una vita domestica abbastanza tranquilla, la mia bella pagina web per la libertà d'espressione… e poi c'è l'intrattenimento. Massicce dosi d'intrattenimento – questo è l'oppio nostro. Persino quell'ateo fiero che è Gianluca Neri, secondo me, sarebbe pronto a immolarsi per il suo decoder. E guai a dirgli che è roba da rincoglioniti – lui risponderà che i fenomeni mediatici vanno studiati, criticati, capiti. Ebbene, con le religioni il discorso è lo stesso. Sono fenomeni mediatici millenari, che tutto meritano fuorché d'essere snobbati: vanno studiati, criticati, capiti. Se non altro, perché hanno funzionato per centinaia di generazioni – i reality show non dureranno altrettanto. Non credo, perlomeno.
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- non il solito post sulle vignette

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Pensiamo tutti all'elefante, ovvero
generazione di fenomeni

Questo, se Dio vuole, non è un pezzo sulle vignette. Che sono state semplicemente una disastrosa provocazione (su questo direi che possiamo concordare).

Questo è un pezzo sulla mia generazione, che secondo me ha dei problemi con Dio. Non nel senso che non vuole riconoscere la sua infinita misericordia, ecc. Balle. Si può benissimo vivere senza credere in Dio, la maggior parte di noi lo fa. Ma si può vivere senza rispettare i credenti?

Dici: la tua generazione. Ma cos’è una generazione? Come fai a capire che esiste una generazione? L’ho capito dai blog. La mia è la generazione che li sa usare. Gli altri non li conoscono, i blog, o al limite li subiscono. La mia li usa, non sempre bene.
Il caso delle vignette ne è una prova. Come ha notato, per esempio, Luca Sofri, c'è stato uno scollamento tra i pareri espressi sui quotidiani e quelli sviluppati sui blog:
la distanza tra le opinioni pubblicate sui giornali e quelle pubblicate sui blog - sulle questioni danesi - non era mai stata così vistosa (non sto a linkare i mille esempi, li avrete visti tutti). “ci sono molti che si stanno rivolgendo a internet, ai blog, ai commenti, per trovare e dire quello che sono stati delusi di non trovare sui giornali. E mi pare - ripeto, non voglio affermare nessuna competizione o svolta epocale: parlo di questa circostanza - che il livello del dibattito sia assai superiore.

E’ successo che, mentre tutti i rispettabili corsivisti dei quotidiani, oltre a condannare la reazione violenta del mondo islamico, ricordavano la necessità di non offendere gratuitamente le religioni altrui, sui blog prendeva forma una posizione molto meno sfumata. Che potrei riassumere così: la libertà d’espressione non si tocca. Se cominciamo a rispettare un tabù (il volto di Maometto), o un dogma, o una ‘sensibilità particolare’ di qualsivoglia religione, alla fine non riusciremo più a parlare di nulla. E a ridere di nulla. Sto semplificando, eh? Ma il punto più o meno è quello.

Luca Sofri cita, come esempio di “dibattito superiore”, un pezzo di Babsi Jones su Macchianera apprezzato da molti, che dice, fra l’altro:
Ho detto e scritto che l’Islam ha un gravissimo problema di gestione del concetto di “libertà individuale”, e lo riscrivo. E che ritengo il laicismo l’unica soluzione possibile per una pacifica convivenza, e le religioni, tutte, un rincoglionimento neanche tanto progressivo.

Quest'ultima frase, a pensarci su, è enorme.
Infatti, per Babsi il laicismo è l’unica soluzione per convivere (e posso concordare): ma per convivere con chi? Con tutti noi: con chi crede in un Dio e con chi non ci crede. Il problema è che per Babsi (ma non solo per lei, non solo per lei) chi crede in un Dio alla fine della partita è un rincoglionito. Dunque: “il laicismo è l’unica soluzione per convivere con voi, che comunque siete tutti rincoglioniti”.

Purtroppo per Babsi (e per molti), non basta definirsi laici per esserlo. Un ateo che è convinto di avere assolutamente ragione non è molto più laico di un testimone di Geova che crede di avere assolutamente ragione. Entrambi portano la luce in un mondo di rincoglioniti.
La laicità è un’altra cosa. E’ accettare che esistono altre verità, oltre alle mie. Non devo per forza essere d’accordo con chi le sostiene, ma devo rispettarli. Proprio perché pretendo che loro rispettino me.

Quel che mi è successo in questi giorni, è che ho capito che la mia generazione (la generazione che usa i blog) questa idea non l’accetta, magari la capisce, ma non la manda giù. Se credi in Dio sei un coglione, punto. Io non ho molta voglia di interessarmi alla tua particolare sensibilità di coglione superstizioso. Sei tu che devi imparare che le religioni sono una fregatura. Non puoi impormi la tua sensibilità. Devi accettare la mia, che è migliore, perché è laica (ah sì? E’ laica?)

Prendiamo ancora Luca Sofri. Legge Battista sul Corriere, e lo trova interessante. Battisti sostiene che alcune vignette su Maometto siano razziste, se non antisemite. Sofri ci ragiona un po’ su e conclude: no, mi sembra che non ci sia razzismo nelle vignette. Questo sì che è curioso. Battista ce lo vede, Sofri no. Entrambi hanno un paio d’occhi e il cervello acceso. Perché non arrivano alla stessa conclusione?

Io dico che sia un problema generazionale, appunto. Battista sa che con la religione bisogna andarci cauti. Il suo è una specie di riflesso incondizionato: c’è una vignetta anti-religiosa? Non mi fido, sento già odore di razzismo. Con Sofri questo riflesso non scatta più. Non voglio dire che sia un bene o che sia un male, che Battista sappia più di Sofri o sia più empatico con l’Islam. Semplicemente, Sofri è più giovane. Dove con “giovane” non intendo dire “inesperto”. Intendo: appartenente a una generazione (la mia), che non ha la stessa cautela in materia di religione. Che questi argomenti è portati a tagliarli col coltello. Fino al paradosso di Babsi: io sono laica, infatti credo che i credenti siano tutti rincoglioniti.

Chissà quanti credenti saranno disposti al dialogo con Babsi su queste premesse. Ma il punto è: lo vogliamo veramente, il dialogo, noi della generazione di Babsi? O non c’interessa semplicemente reclamare il nostro spazio, la nostra insopprimibile libertà espressiva, la nostra necessità di sovvertire qualsiasi divieto? (E qui, certe considerazioni di Lia cadono a fagiolo).

A chi mi ha seguito fin qui, posso confessarlo: vi ho fregato. Questo era un pezzo sulle vignette.
Posso riassumere una volta ancora la questione?
C’è una religione X che tra i suoi tabù ha il seguente: non devi mai pensare a un elefante rosa. Mai e poi mai.
Passano mille anni, e gli adepti a un’altra religione (la chiameremo LSO: “Laicismo snob occidentale”), scoprono che i loro dirimpettai della religione X hanno dei problemi a immaginare gli elefanti rosa. Siccome tira una brutta aria (migrazioni di massa, crisi economica, guerre civili), gli adepti di LSO iniziano a passarsi la voce: gli adepti di X hanno un ridicolo tabù che limita la libertà di pensiero! E’ una vergogna! Facciamo qualcosa!
Cosa facciamo?
“Pensiamo tutti a un elefante rosa! Infatti, ne abbiamo il diritto! E guai a chi ce lo tocca! Elefante rosa! Elefante rosa!”
Domanda: chi è più “rincoglionito”? Chi crede in X o chi crede in LSO?
Provate a rispondervi laicamente.
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- 2025

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Cosa c'è nella stanza 68

"E proprio quando io e Aureliana credevamo, Signore, di aver scoperto chissà quale mistero intorno a Leonardo – la sua doppia personalità, intendo, Immacolato vs. Arci – bene, proprio in quel momento lo perdemmo. Smise di venire in facoltà. Le mogli lo cercavano. Sulle prime pensammo che ci avesse scoperto. La verità era più banale: si era cacciato nei guai. Guai professionali. Guai politici.
Come forse non le ho ancora detto, Immacolato lavorava partime per il Ministero della Propaganda del Teopop, presso il Reparto Nostalgia. Pare che fosse stata la bismoglie più giovane a brigare per fargli avere quel posto, nel quale sembrava particolarmente dotato. La cosa non sorprende, visto che il reparto stesso era stato fondato da "Arci", ovvero da lui medesimo.

Gli impiegati del Reparto Nostalgia (detto anche "Progetto Duemila") sono addetti alla memoria collettiva. Riciclano materiali audiovisivi di repertorio risalenti a 20 anni fa e li trasformano nel Passato Ufficiale del Teopop. Ovviamente tagliano le cose che intendono dimenticare e far dimenticare. Immacolato aveva una buona memoria (requisito importante per lavorare al Reparto), ma che a volte lo tradiva, mettendolo nei guai. Per esempio, in occasione del ventennale della morte di Papa Giovanni Paolo II, sostenne davanti a un alto prelato di aver visto ai suoi tempi l'immagine video del Grande Papa che stringeva le mani a un dittatore cileno. Un finto ricordo, tipica illusione dell'inconscio. Ma Immacolato scelse male il tempo e il modo, e la figuraccia davanti al cardinale costò il posto al suo principale (mentre lui rimediò solo un'espulsione). In questo modo favorì involontariamente l'ascesa di Pioquinto, un viscido funzionario clericale che fu nominato responsabile del reparto. Immacolato lo conosceva già (e lo disprezzava), ma non poteva sapere che Pioquinto apparteneva alla fazione papista del Teopop – una corrente che appoggiava il Papa del Teopop, e il suo tentativo di riprendere saldamente il controllo del regime.
Pioquinto si era affrettato a richiamare Immacolato al lavoro – ne conosceva le doti e preferiva averlo con sé che contro. Ma Immacolato non era più l'impiegato remissivo di un tempo. Forse la possibilità di confidarsi liberamente a un blog aveva risvegliato in lui sopiti istinti di ribellione… fatto sta che Pioquinto si trovò più volte ai ferri corti con lui, e alla fine, per una banale divergenza di vedute, lo condannò alla Stanza 68. Non mi faccia quella faccia, Signore. Non ha mai sentito parlare della stanza 68?

La Stanza è una delle peculiarità logistiche del Teopop italiano, un po' come i bunker di cemento in aperta campagna erano la peculiarità del comunismo albanese. Ogni edificio pubblico (cioè, in pratica, ogni edificio) è equipaggiato con una stanza 68. Di solito è in fondo al corridoio, di fianco all'infermeria. A volte manca l'infermeria, ma di solito non manca la stanza 68.
Si tratta sostanzialmente di un'elementare forma di castigo, prevista dal regime: se qualcuno continua a pestare i piedi al superiore, quest'ultimo come extrema ratio può indirizzarlo alla stanza 68. Lo stesso Immacolato, nell'unico luogo dove era in grado di esercitare un minuscolo potere (la facoltà di Scienza Inutili) aveva qualche tempo prima ricorso alla Stanza 68 con uno studente che lo innervosiva. Va detto che si tratta di solito di casi molto rari; tutti preferiscono essere buoni e ubbidienti piuttosto che passare una mezza giornata nella Stanza 68. Ora lei, Signore, vorrà sapere cosa ci sia di così universalmente deterrente nella Stanza 68. Beh, non mi crederà.

La Stanza 68 è una capsula del tempo.
Contiene libri, riviste, manifesti, materiale audiovisivo, tutto risalente a un determinato periodo della storia d'Italia. E di solito, in ogni stanza 68 seria c'è anche una persona, anch'egli risalente a quel periodo, il cosiddetto "aguzzino". Da questo punto di vista la Stanza 68 risolve uno dei problemi fondamentali del Teopop: lo smaltimento di una generazione in esubero. Si tratta ovviamente della generazione nata tra il 1940 e il 1955 – i babyboomers.
Come sicuramente sa, Signore, in tutto l'Occidente la generazione del baby boom è quella che ha avuto la possibilità di crescere, mettere famiglia e conquistare il potere nella fase migliore di tutto il Novecento – e forse di tutta la storia dell'umanità: la Guerra fredda garantiva stabilità (e una relativa pace); i mercati si espandevano, c'era lavoro quasi per tutti, ecc. ecc.. Furono gli anni della conquista dello spazio e della rivoluzione sessuale, Signore, senz'altro lo sa meglio di me, non aggiungo altro. In ogni caso, già verso gli anni Ottanta questa fase di benessere stava rapidamente declinando. In alcune nazioni declinò molto più bruscamente che in altre – è il caso dell'Italia, naturalmente.

Deve sapere che durante la Guerra fredda l'Italia aveva goduto di una sorta di rendita di posizione. Voi americani avevate tutto l'interesse a mantenere a un certo livello di benessere una nazione al centro del Mediterraneo, a ridosso della cortina di ferro e del Medio Oriente. Era un modo per dimostrare la superiorità dell'Occidente, della Nato. Ma dopo il 1989, le priorità cambiarono. L'Italia doveva tornare a camminare con le sue gambe, e riprendere il mediocre destino di sottosviluppo a cui sembrava condannata dalla Storia. Questo lasciò spiazzati i babyboomers. Essi erano nati e cresciuti in un mondo pieno di opportunità. In un certo senso, pensavano che tutto fosse loro dovuto: pensioni sempre più cospicue, scuole sempre più formative, ospedali sempre più puliti, lavori sempre meno faticosi… ma questo non era più sostenibile. Economicamente.
La reazione emotiva di questi babyboomers fu devastante. Si chiusero in un passato fatto di canzoni e immagini della loro gioventù. Siccome erano la fascia di popolazione più numerosa, il mercato rispose massicciamente alla loro fuga della realtà, producendo un revival infinito sugli anni Sessanta-Settanta. Il processo regressivo fu tale, che l'Italia fu l'unico Paese in cui i babyboomers non andarono mai al potere. Nella stanza dei bottoni ci rimasero i nonni: i papà a un certo punto si rintanarono nella stanza dei giochi e non ne uscirono più.

Il Teopop – che era stato ideato da esponenti della generazione dei figli, cioè dalla mia – si era naturalmente posto il problema: cosa facciamo di 'sti bamboccioni – nel frattempo diventati tutti arzilli pensionati, assolutamente improduttivi, ma ancora pieni di voglia di raccontare dei loro anni ruggenti in cui loro sì che sapevano divertirsi ballare fare la rivoluzione? Ci sarebbero voluti ancora molti anni prima di smaltirli: i babyboomers avevano usufruito di una sanità pubblica efficiente e avevano un'aspettativa di vita altissima. Si calcolava che l'ultimo scaglione di babyboomers non avrebbe smesso di intonare canzoni di Battisti prima del 2035. Bisognava dunque rassegnarsi ad altri vent'anni di ritornelli di Battisti in tv? Qualche membro del Teopop iniziava già a parlare di eutanasia di massa.
Ma altri si opponevano. "Nel Teopop c'è posto per tutti", dicevano. "Possiamo trovare un posto anche per loro".
La soluzione definitiva fu piuttosto ingegnosa, e non mi stupirei se il diabolico Arci non fosse stato tra gli ideatori. Rientra un po' nel suo stile, per così dire. I babyboomers furono esaminati per quello che erano: un branco di sessanta-settantenni inutili e nostalgici. Che cosa potevano ancora fare, di utile?
"L'unica cosa che sanno fare è tediare il prossimo con nostalgie inutili. È una tortura".
"Già, ma nel Teopop c'è bisogno di tutto. Anche di torturare il prossimo, quando se lo merita".

E fu così che nacque il progetto "Stanza 68". Il babyboomer, detto anche "aguzzino" fu preso e isolato nella sua Stanza dei giochi – poster, libri, dischi, film, tutto il più possibile originale, tanto di quella paccottiglia ce n'era in eccesso. E quando qualcuno si comporta male… lo si manda nella Stanza 68 a farsi raccontare i vecchi tempi: la Vespa, Celentano, quel che Pasolini disse agli studenti di Valle Giulia, ecc., ecc., ecc..
Il risultato (anche solo dopo mezza giornata) è devastante. Pare che tu possa sentire le tue cellule grigie liquefarti. Non lo auguro nemmeno al mio peggior nemico.
Ora che ci penso, il mio peggior nemico era lui.

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Anche i ricchi piangono
(e hanno tutta la nostra solidarietà)


Ma noi (e intendo proprio io e te), a che generazione apparteniamo?
È una storia vecchia. Direi che si tratta di una generazione di passaggio (come tutte), che fa discretamente fatica a crescere (come tutte), e che è composta più o meno da una quarantina di persone che mi conosco e mi stanno simpatiche, quasi tutte comprese tra Bologna e Reggio, con casuali propaggini in altre città della penisola.

Questa generazione avrà senz’altro le sue tradizioni e i suoi svaghi, molto interessanti da rievocare, mentre tutte le altre generazioni intorno sbadigliano. Qual era il nostro telefilm preferito? E il cartone animato? Cosa cantavamo intorno al fuoco sulla spiaggia? C’è un libro, una marca di scarpe, una droga, una lettera dell’alfabeto che ci possa identificare? Per me andrebbe bene anche Lambrusco Generation, ma tu sei astemia e fai le smorfie, come non detto.

E quando la nostra generazione va al cinema, cosa guarda? Per prima cosa guarda il prezzo del biglietto, e non è una battuta. Quest’estate la mia generazione era in vacanza in Spagna e passava più tempo a studiare i menu dei ristoranti che a mangiare. Potremmo chiamarla Nice Price Generation: ha studiato, sa cos’è buono e pretende di consumarlo, ma non sempre se lo può permettere. Cavalca con passione tutte le tendenze finto-povere, nella speranza di riuscire a passare l’inverno con la giacca dell’anno prima. Perché in effetti il sushi è buono, ma pensa che colpo se lo gnocco fritto andasse di moda. 

Perciò va al cinema i giorni dispari (prezzo tagliato), cercando di non farsi fregare. Diffida naturalmente dei kolossal, e non ha apprezzato molto la svolta splatter di Scorsese. L’appartamento spagnolo meglio di no, perché la nostra generazione non c’è andata, in Erasmus. Oh, ci sarebbe piaciuto. Ma costava un po’ e non abbiamo mai avuto il coraggio di chiederlo alla generazione dei nostri genitori.

Così andiamo a vedereil film di Muccino, un regista che nei suoi film “indaga sui rapporti tra le generazioni”. E che almeno è un ragazzo sveglio: infila nei suoi film il maggior numero di personaggi possibili, così è costretto a lavorare per sottrazione, a condensare una sequenza in una scena, un dialogo in un’occhiata: e intanto il pubblico resta sveglio, anche se i critici preferiscono ritmi più lenti. Molti entrano per vedere un ritratto destabilizzante della loro generazione, e anche noi, nel buio della sala, facciamo finta di destabilizzarci un po’. Anche se le generazioni di Muccino pagano d’affitto in un mese quello che noi guadagnamo in tre.  

Dunque più o meno andrà così: tra vent’anni avremo un bell’appartamento, nostro figlio ci fregherà il bancomat per comprare fumo da offrire a tutta la sua classe, nostra figlia sognerà di fare i calendari, noi continueremo ad alimentare i fuochi di paglia delle nostre velleità di ragazzini, quando volevamo scrivere un libro o fare gli attori. Ogni tanto andremo in crisi, ogni tanto faremo la pace. Andrà così?
Beh, magari.

Se tutti i problemi della mia vita dovessero consistere nel vivere in tre camere, cucina e soggiorno di un quartiere signorile, nel fare un lavoro noioso con un capo che posso permettermi di mandare affanculo, nel dover scegliere, a 45 anni, tra Laura Morante e Monica Bellucci… io ci farei la firma.

Ma temo che la mia vita non andrà così, perché sono precario, e ho sentito dire da fonte autorevole che la precarietà invecchierà con me. L’inflazione galoppa, i buoni del tesoro sono carta straccia, e mi pare che la guerra non stia aiutando le borse e i mercati. Anche se dicono che sarà una guerra breve (ma allora perché la chiamano “Infinita”?)

Per tutti questi motivi, temo che non riuscirò mai a permettermi quell’appartamento, e forse non avrò nemmeno le risorse per riuscire a mantenere un paio di figli stronzi. Credo che continuerò ad avere un lavoro difficile, e non finirò mai il mio romanzo, probabilmente non lo inizierò nemmeno. Credo che la mia compagna, anche volendo, non avrà il tempo di fare teatro, perché continuerà a lavorare più di otto ore al giorno. E se avremo amanti, saranno poveri cristi come noi, non registi di teatro, non Moniche Bellucci, e non avranno seconde case al mare in cui ospitarci. Insomma, in fin dei conti forse questi amanti non li avremo proprio, sotto un certo standard economico l’adulterio perde ogni romanticismo, diventa una povera, squallida cosa.

Di più: credo che se dopo vent’anni di società precaria esisterà ancora il bancomat, e io sarò stato così fortunato da conservare il mio, me lo terrò ben stretto, e se mio figlio lo userà per comprare un etto di fumo, prima lo romperò di botte, poi lo costringerò a rivendere quel fumo nella sua scuola per restituirmi il maltolto con gli interessi. Perché la precarietà rende tutti più nervosi e violenti, e la mia generazione non farà eccezione.

E credo che il giorno che mi capiterà un incidente, tipico deus ex machina delle moderne sceneggiature, forse dovrò indebitarmi per pagare l’operazione, forse non potrò permettermi una riabilitazione a regola d’arte. Insomma, forse alla fine resterò su una sedia a rotelle. E a quel punto tu dovrai volermi bene a tutti i costi, o assumere una badante più precaria di me, che mi spinga lungo il viale del tramonto aggirando le barriere architettoniche.

Insomma, credo che le cose non andranno così bene per noi due. Abbiamo contro tutte le statistiche del mondo, il buco dell’ozono, le micropolveri, le pensioni che paghiamo agli altri e che nessuno pagherà a noi. Meglio non pensare troppo al futuro. Meglio infilarci in un cinema, a guardare le case e le scenate di persone che anche se vanno in crisi stanno comunque meglio di noi. Così come una volta andava di moda la decadenza asburgica, destini infelici in un tripudio di stucchi e waltzer, così ora va in scena la decadenza della borghesia italiana. Ma il vero modello resta il Sudamerica: loro lo sanno da vent’anni, che gran consolazione sia per la povera gente sapere che Anche I Ricchi Piangono.

E noi piangiamo con loro, amore. È un momento difficile per incontrarsi, per volersi bene, per guardare avanti. Ma è il nostro momento. Tra un po’ scorreranno i titoli e si tratterà di uscire. Ma io non ho paura, almeno finché mi tieni la mano. E tu?
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grazie a Flaming* e a BrainwaxPermettete, compio due anni e mi vanto.

Et moi, moi, qui je suis resté le plus fier,
Moi… je parle encore de moi


A questo punto, qualcuno potrebbe anche avere il diritto di chiedermi il perché, e dove voglio arrivare. Beh, non ne ho più la minima idea.
Forse è proprio questo che mi piace. Sin da piccoli, ci hanno sempre rifilato i desideri degli altri, come se dovessero per forza piacerci i vestiti usati dei fratelli maggiori. Ma davvero volevamo diventare famosi come i Beatles? Rivoluzionari come Che Guevara? Maledetti come Bukowski? Tutta qui la gloria, uno scimmiottamento di cose già sentite e risentite, un’emulazione di un’emulazione di un’emulazione?
Sempre a incidere demo, a spedire manoscritti ai concorsi, come se le rivoluzioni si facessero davanti a una giuria competente. “Salve, siamo una band di noise brianzolo, facciamo cose tipo Sonic Youth, ho detto tutto”.
“Piacere, io sono un giovane scrittore, del filone intimista padano, dovrei sfondare la prossima stagione”.

Mi fa bene tenere un sito personale? Non lo so. Qualsiasi considerazione lascia il tempo che trova, davanti alla semplice evidenza che dalla laurea in poi non c’è stato un lavoro, né un amore, né un indirizzo, né un’abitudine che mi abbia resistito tanto tempo. Due anni.
Pochi? Fate due conti:

Si discuteva del genoma umano e del processo a Napster. La New Economy aveva subito una temporanea battuta d’arresto. Amato stava pensando di candidarsi come leader dell’Ulivo. Due anni.
I negozianti di Genova speravano di fare buoni affari col G8. I soliti pacifisti rompicoglioni protestavano perché in Afghanistan le donne non potevano più mostrare il viso in pubblico. Le Twin Towers, in Italia, nessuno sapeva cosa fossero e dove. Marco Biagi era un oscuro consulente del Ministero del Lavoro.
George Bush era il nome di un ex Presidente. Berlusconi era il nome di un ex Presidente. Due anni. 24 mesi. Dove sono finiti?
Io ce li ho in archivio. Dateci un’occhiata.

Mi fa bene tenere un sito personale? Cosa ci guadagno? Che cos’ho in mente? Non lo so. Forse sono solo curioso di vedere come va a finire, il muro contro il quale andrò a sbattere. Capitemi, è la prima volta nella vita che mi ritrovo in una storia di cui non conosco il finale.

E poi, insomma, che razza di domanda è, se mi fa bene o no? Come se ve ne fregasse qualcosa della mia salute.
Il fatto è che questo sito fa bene a voi, sennò sareste in meno. Tanto piacere, quindi: qui è Leonardo, blog italiano fatto in casa e non scremato. Dal 2001 m’invento due o tre storie alla settimana, e due o tre volte al mese vi diverto e vi faccio sentire intelligenti.
Non vi ho mai chiesto un soldo, né un accesso, né un link, ma oggi volevo chiedere un regalo. Credo di meritarmelo, e poi non vi costa nulla.

Vorrei che ciascuno di voi mi segnalasse – sul forum o per posta – il post che gli è piaciuto di più. No, non farò una classifica di gradimento. Vorrei solo sapere quando vi siete divertiti e quando vi siete annoiati, e farmi lisciare un po’ il pelo, perché no.

Per capire qual è il vostro post preferito, seguite le istruzioni qui sotto:
chiudete gli occhi,
contate fino a tre,
pensate: Acc, non mi vengono in mente post originali, solo quello là banale e scontato, Lui penserà che sono un tipo superficiale...
Bene, “quello là” è il vostro post preferito. Fidatevi.
Io conosco i miei polli.

(Se qualcuno mi vuole segnalare il post che gli è piaciuto meno, è ugualmente benvenuto)
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Traffico di senso: la parola Valori

Il problema è che i giovani non hanno più valori. Abbiamo tutti perduto i nostri valori. L'espressione è talmente vulgata che sembra provenirci dalla notte dei tempi.
In realtà se ci mettessimo a studiare seriamente la ricorrenza della parola "valori", sospetto che rimarremmo sorpresi. Scopriremmo che fino a quindici-vent'anni fa, la parola non veniva adoperata in questo senso. Quello dei "valori" è un concetto recentissimo.
Questo non vuol dire che vent'anni fa non ci si lamentasse perché ai giovani mancava qualcosa. Si usavano però parole diverse. All'inizio degli anni Ottanta si sarebbe detto, per esempio:

Oggi i giovani son tutti uguali
Perché mancano gli ideali

(Edoardo Bennato, Tutti insieme lo denunciam)

Ecco uno spunto interessante: i valori sono subentrati agli ideali. Questo ci dà anche una possibile spiegazione, e uno spartiacque cronologico: alla fine del 1989 cade il muro di Berlino e cominciamo a sentirci dire che le ideologie sono tramontate. Evidentemente anche la parola ideali ha patito il colpo.
Non è stata una grandissima perdita. La parola conservava un dolciastro retrogusto romantico (per gli Ideali si fanno sempre le barricate), e una latente etimologia platonica (il mondo delle idee), che fa sì che il detentore di ideali debba sempre scontrarsi con la dura realtà.
La parola valori sembra meno sospetta. Ha un'aria pragmatica, concreta. La sua origine è tanto evidente, che nessuno ha mai pensato di rifletterci sopra. È un termine del lessico economico. Più chiaro di così…
I valori sono le cose che valgono. Più uno ha valori, più uno vale. Attenzione, però: i valori si possono anche perdere, ed è esattamente quello che stiamo facendo, sin dal momento in cui abbiamo iniziato a parlarne seriamente (1990): in pratica i valori sono "quello che rischiamo di perdere, o abbiamo già perso".
Insomma, ogni volta che parliamo di valori commettiamo un lapsus. Crediamo di parlare dell'amicizia, dell'amore , della solidarietà, di Dio, della Patria, della Famiglia… in realtà stiamo parlando di noi, della nostra ossessione di valere di più o di meno rispetto a ieri, rispetto a domani (rispetto ai giovani e rispetto agli anziani).
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